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L'amico di Ramy ripete la lezione innocentista imparata dai compagni

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Pietro Senaldi
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Fares Bouzidi ha dato in un’intervista televisiva la sua versione sull’inseguimento che lo ha visto protagonista nella folle notte milanese che ha portato alla morte del diciannovenne Ramy Elgami, suo passeggero e “amico da una vita”, così lo ha definito. Lo scoop dei cronisti di Diritto e Rovescio non è servito a eliminare i dubbi sulle dinamiche dello schianto. Si tratta di una versione di parte di un ragazzo che vuole sfuggire all’accusa di omicidio colposo e che, incalzato sui fatti, risponde per lo più “non so e non ricordo”. Un resoconto che peraltro è diametralmente opposto alla relazione dei periti della Procura di Milano, che di fatto addebitano a Fares, alla sua «guida spericolata e sprezzante della vita sua, dell’amico, degli agenti che lo inseguivano e di chiunque fosse in strada in quei momenti», la responsabilità del decesso di Ramy.


Quello che però è stato illuminante è stato il modo in cui il giovane immigrato di seconda generazione ha provato a giustificarsi. Una linea difensiva che coincide perfettamente con quanto hanno sostenuto fin dal primo momento, senza aver visto nulla, non solo gli amici della vittima, l’estrema sinistra, i centri sociali e quel mondo che potremmo definire “l’universo parallelo di Ilaria Salis”, ma anche le istituzioni milanesi. «Sono scappato perché non avevo la patente e non volevo che mi sequestrassero la moto, che era il mio sogno. Ero spaventato perché i carabinieri mi inseguivano. Non mi fermavo perché mi montava l’ansia. Ho sentito un colpo da dietro prima di perdere il controllo del mezzo».

 

 


Frasi sconnesse, spesso in contraddizione con la realtà, volte unicamente ad alleggerire la sua posizione, come quando sostiene di aver rallentato più volte per far scendere Ramy ma, al contempo, afferma che il passeggero lo esortava a procedere la corsa, o come quando nega di aver perso il casco. La paura dei carabinieri, l’ansia che monta addebitata all’inseguimento, il contatto finale che i video non registrano. E soprattutto, non una parola di pietà per l’amico di una vita morto, non una minima ammissione di aver sbagliato e che avrebbe dovuto fermarsi, non una spiegazione di come mai un giovane disoccupato dei quartieri popolari girasse, a fine serata, con centinaia di euro in contanti. L’intervista di Fares è un autogol, un’involontaria ammissione di colpa. In sostanza,è il frutto del lavaggio del cervello che il ragazzo ha subito a opera di quella sinistra buonista e contro le forze dell’ordine che da quattro mesi infila una sequenza di idiozie pur di far passare questa storia come un nuovo caso George Floyd, l’afroamericano soffocato dal ginocchio di un poliziotto schiacciato sulla sua gola dopo che si era arreso.


Non c’è razzismo nella morte di Ramy. L’estrema sinistra ha provato a cavalcare la fine del ragazzo per provocare una rivolta delle periferie contro il governo. La sinistra cosiddetta moderata che governa Milano le è andata dietro perché incapace di posizioni autonome, anche quando sarebbero sensate. Gli intellettuali d’area si sono improvvisati giuristi e hanno inventato l’inseguimento proporzionale al supposto illecito, in base al quale se uno non si ferma allo stop non è corretto inseguirlo per più di trenta secondi o oltrepassando i limiti di velocità. La sinistra colpevolizza i carabinieri dicendo che Fares e Ramy sono scappati perché avevano paura, e li giustifica. L’intellettuale italiana di genitori liberiani, Anna Maria Gehney, autrice di Corpo nero sostiene che la paura uccide e i ragazzi non devono avere paura. Ecco una frase che può evitare nuovi casi Ramy. Quelle ascoltate in questi mesi dai progressisti nostrani sono una garanzia che invece, ahimè, ce ne saranno altri.

 

 

 

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