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Il pensiero che minò il mito della resistenza

Anna Lisa Terranova
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Nella storiografia sul fascismo c’è un prima e un dopo Renzo De Felice. Il prima era intessuto su interpretazioni faziose del Ventennio, quella del fascismo come parentesi e “malattia morale”, quella marxista del fascismo come reazione antisocialista del grande capitale, quella gobettiana del fascismo come “autobiografia” di una nazione di schiavi. Poi arrivò De Felice, la svolta rispetto alla vulgata corrente, con l’idea di allontanare l’oggetto dello storico dalla mente indagatrice scevra di pregiudizi. Nella deflagrante Intervista sul fascismo con Michael Leeden, uscita giusto 50 anni fa, nel giugno 1975, lo storico reatino parla di interpretazioni del fascismo buone per essere “scodellate in piazza”: «Io la mia mi limito a presentarla ai lettori, e a presentarla come un’acquisizione continua».

Oggi la figura di De Felice e il suo metodo di ricerca sono ricordati e approfonditi in un saggio di Francesco Perfetti – Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice, Nino Aragno editore - in cui si riscostruisce anche la gogna mediatica e non solo che lo studioso ebbe a subire ad opera dei dogmatici antifascisti. Recensendo sul Corriere il libro di Perfetti, Paolo Mieli ricorda quando De Felice in una intervista a Giuliano Ferrara – era il 1987 - auspicò la rivisitazione della «parte della carta costituzionale dedicata alla ricostituzione del partito fascista” che definì “grottesca».

 

Non meno importante il libro-intervista Rosso e Nero con Pasquale Chessa, pubblicato nel 1995, in cui veniva smontata la “baracca resistenziale”, ivi compresa la retorica sulla partecipazione popolare alla “Guerra di liberazione”. Al di là delle polemiche isteriche che investirono il suo lavoro, l’opera defeliciana e il coraggio mostrato nel “provocare” la narrazione corrente dell’epoca ebbero effetti salutari sul dibattito storico, facendo giungere almeno ad una acquisizione di carattere generale: l’assunto cioè che il mestiere dello storico è revisione continua. «Lo storico non può rimanere attaccato come un’ostrica al suo guscio. Se lo fa, ha finito di fare lo storico, fa il teologo o il politico... secondo me oggi la storiografia italiana, contemporaneista, è malata di sicurezza».

Una sicurezza che De Felice mandò in frantumi con la sua tesi del fascismo movimento come tentativo del ceto medio emergente di acquistare partecipazione e peso politico mentre il fascismo regime è rappresentato dalla politica mussoliniana che determina la sovrastruttura di un potere personale. Un punto di vista che rimanda alla complessità dell’oggetto degli studi defeliciani che cozzava, allora come oggi, con gli schematismi in cui si intendeva racchiudere il fascismo. Sulle cui origini “di sinistra” tra l’altro De Felice non aveva dubbi.
«L’idea che lo stato, attraverso l’educazione, possa creare un nuovo tipo di cittadino, è una idea tipicamente democratica, classica dell’illuminismo, una manifestazione di carattere rousseauiano».

Su De Felice piovvero accuse di fascismo – lui che da giovane era stato comunista per poi lasciare il Pci dopo il ’56 e la rivolta d’Ungheria- e di intelligenza col “nemico” ma ciò non scalfì la tenacia con cui portava avanti il suo metodo, imparato sotto la guida del grande Federico Chabod. Morì il 25 maggio del 1996, ad appena 67 anni d’età, lasciando incompleto l’ultimo volume della grandiosa opera dedicata alla figura e alla storia di Mussolini, iniziata, per conto dell’editore Einaudi, con Mussolini il rivoluzionario, e terminata con l’ottavo volume postumo, dal titolo Mussolini l’alleato. La guerra civile. Tre mesi prima avevano lanciato molotov contro la sua abitazione mentre lo storico era ricoverato in clinica. Finisce sempre così: linciaggio mediatico che poi diviene “operativo”.

 

 

 

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