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"Pestati dal branco, volevano ucciderci": banda di nordafricani aggredisce tre ragazzini

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Alessandro Aspesi
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Il 7 febbraio all’Arco della Pace 5 ragazzi sono stati brutalmente aggrediti, senza alcun motivo, da una baby gang composta da una ventina di magrebini. Abbiamo incontrato tre dei giovani per capire cosa hanno provato nei terribili momenti dell’aggressione e cosa pensano dell’accaduto a qualche giorno di distanza dai fatti. Appaiono visibilmente provati. Nei loro occhi si può leggere ancora lo stress vissuto in quei momenti. Anche la loro postura tradisce un certo nervosismo. Sono al sicuro ma è come se da un momento all’altro potessero subire una nuova aggressione e stanno un po’ sulla difensiva. Nino (il nome è di fantasia) tra tutti è quello che se l’è vista peggio. Ha ricevuto una bottigliata in testa che gli ha provocato un’emorragia celebrale. Poteva morire e se ne rende conto.

«Ciò che ricordo di quegli istanti è lo stupore che ho provato, non capivo il motivo di tanta rabbia nei miei confronti. Quei ragazzi non li conoscevo nemmeno eppure sembrava che volessero uccidermi» spiega il 15enne. «Quando ero a terra sanguinante uno degli aggressori mi ha trascinato per qualche metro e stava per darmi il colpo di grazia con un calcio, sono vivo per miracolo». Luca (altro nome di fantasia) invece non ricorda nulla. «È come se la mia mente avesse cancellato tutto, mi hanno spiegato che lo shock e l’adrenalina di quei momenti ha provocato in me una vera e propria amnesia, un meccanismo di difesa per superare il terrore». Marco (nome fittizio) invece ricorda il panico e l’incredulità di quei momenti. «Chiedevo aiuto alla gente ma nessuno si fermava, tutti facevano finta di non vedermi per paura di essere coinvolti. Insomma, si voltavano dall’altra parte. Ricordo precisamente di avere cercato di fermare una coppia di adulti che però mi ha ignorato» continua Marco. «A quel punto ho pensato davvero di essere finito». Naturalmente quanto successo ha lasciato nei tre giovani un’impronta indelebile che si porteranno dietro per tutta la via. «Ci penso ogni giorno» spiega Nino. «Provo sollievo a parlarne con mio padre, gli racconto la rabbia che provo e l’angoscia». Anche Luca torna spesso con la mente alla sera del 7 febbraio. «Penso al fatto che uno dei miei amici poteva davvero perdere la vita e questo mi provoca un forte senso di impotenza». Le cose che erano semplici e scontate sono diventate imprese impossibili. Anche uscire è diventato un problema. «Alla sera ormai esco solo con mio padre, da solo non me la sento» spiega Nino, che proprio pochi giorni fa mentre camminava con sua sorella sui navigli ha provato uno spiacevole déjà vu. «Passeggiavamo tranquillamente di pomeriggio quando ho visto un ragazzo vestito come i miei assalitori, ho riprovato la stessa sensazione di panico e per un istante ho reagito come se fossi nuovamente in pericolo, sono scappato. Ma poi fortunatamente ho capito che ero al sicuro e mi sono fermato». Anche Luca ha cambiato abitudini. «Prima la sera prendevo i mezzi pubblici» racconta «ora invece solo uber e taxi».

Marco è sempre all’erta. «Sono diventato estremamente reattivo, non appena vedo un gruppo di ragazzi è come se il mio corpo si preparasse a combattere» racconta. «Stringo i pugni e mi preparo a difendermi, non sono mai stato aggressivo ma in quei momenti è come se mi venisse l’istinto di attaccare per salvare la pelle». I tre ragazzi conoscono bene il fenomeno delle baby gang. Pochi giorni prima dell’aggressione di febbraio erano già stati circondati sotto casa da un altro gruppo di maranza. Ma era andata bene. Qualche parola sopra le righe, qualche gradassata, ma erano tornati a casa sani e salvi. La loro idea è che per arginare certe bande criminali, le violenze e le rapine ai danni di persone innocenti, per lo più giovanissimi, servano solo presidi di sicurezza. «Quello che davvero è mancato l’altra sera sono state le forze dell’ordine» spiega Nino. «Se ci fosse stato anche solo una pattuglia di vigili quei ragazzi non avrebbero avuto il coraggio di attaccare». Anche per Marco una presenza maggiore di polizia e carabinieri per strade garantirebbe più sicurezza. «L’ambulanza è arrivata in 15 minuti ma per le forze dell’ordine abbiamo dovuto attendere ancora più a lungo» spiega «solo più agenti sul territorio potrebbero migliorare la situazione». Quanto agli aggressori nordafricani, «vengono tutti da quartieri difficili dove le gang permettono loro di sopravvivere» spiega Nino. «Vivono secondo la legge della giungla, se si dessero allo sport o se frequentassero degli oratori non avrebbero bisogno di fare queste cose». Marco è il più tranchant dei tre. Per lui chi entra a fare parte di una baby gang lo fa proprio perché gli piace fare certe cose. «Si vedeva che per loro non era la prima volta» spiega il ragazzo e racconta che nella comitiva di aggressori c’erano anche delle ragazze. Ma purtroppo non è servito. «Una di loro ha cercato di fermarli dicendo che questa volta avevano esagerato», racconta il 15enne, «segno che per loro non era assolutamente la prima volta».

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