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La sofferenza di Papa Francesco: la Chiesa non sa più parlare di cosa c'è dopo
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Perché siamo creature ferite e malate nei corpi e nelle anime, e abbiamo lividi che possono farci saltare appena sfiorati. Infatti di solito cerchiamo “anestetici” che ci evitino di pensare. Ma forse avremmo bisogno del contrario, di una consapevolezza della vita più profonda e meditata. Di una pietà, nelle nostre giornate, che ci manca.
Di una preghiera che poi s’impone quando noi stessi, o le persone che amiamo, sono provate dalla sofferenza. È una questione che riguarda anche la Chiesa, che pure con queste parole – fragilità, dolore, precarietà della vita, preghiera – ha familiarità da duemila anni. Oggi sembra aver perso quella familiarità.
Quantomeno il ceto ecclesiastico pare che spesso non riesca a trovare le parole giuste, le parole cristiane. Quelle che vorremmo sentire. Lo vediamo in questi giorni con la dolorosa malattia di Papa Francesco, che ci pone tutti di fronte al nostro destino comune, quello dell’invecchiamento, della malattia e della sofferenza, quello della fragilità della vita. Una realtà che dovrebbe suscitare dola Cei, che giovedì scorso ha dichiarato: «Siamo nella direzione giusta di un pieno recupero». Le condizioni generali del Papa e la sua età avanzata avrebbero dovuto sconsigliare una tale fuga in avanti, e le ore successive purtroppo hanno dimostrato quanto poco è stata realistica tale esternazione. Che però è un esempio della difficoltà che gli ecclesiastici sembrano avere con la malattia e la fragilità come condizioni permanenti della vita umana. La fretta che si ha di normalizzare tutto dimostra che non si è capaci di convivere nel tempo con la fragilità e la sofferenza, che non si trovano le parole.
Lo si è visto anche durante l’epidemia di Covid. L’aver chiuso le chiese, sospendendo i riti liturgici, è stata una necessità imposta dalle leggi. La fragilità, la precarietà della nostra vita, il dolore, la malattia sono l’esperienza universale di tutti noi mortali. In tutte le epoche, le condizioni sociali e le età della vita. Tanto è vero che basta sfiorare questa corda – anche con una semplice canzone in un contesto pure mondano come Sanremo (lo abbiamo visto nei giorni scorsi) – che subito risuona potentemente nel profondo di ciascuno e accende emozioni forti, perfino discussioni e polemiche, per le ferite che tutti abbiamo.
Ma la Chiesa (che, passata la pandemia, ha dovuto constatare un notevole calo di frequenza alle messe domenicali) non ha saputo “inventare” nulla che potesse comunque far sentire la vicinanza di Dio in quei momenti di sofferenza, e soprattutto non ha saputo trovare altre parole se non quelle delle autorità pubbliche. Non ha saputo trovare “sue” parole che aiutassero tutti a vivere quella condizione di paura, di vulnerabilità, di malattia. Eppure nessuno come la Chiesa ha nel suo scrigno il tesoro di parole di vita, anche di fronte alla morte. Oggi sembra aver paura di dirle agli uomini, e non sa che è proprio quello che tutti in fondo desiderano e aspettano.
Tempo fa un giornalista laico del Corriere della sera, Antonio Polito, ha raccontato la tragedia di un giovane, figlio di due suoi colleghi, morto in un incidente. Al dolore infinito dei suoi si è aggiunto quello degli amici, e Polito ha descritto lo smarrimento che, durante la messa funebre, tutti avevano negli occhi per l’ingiustizia di quella morte.
Ma poi ha raccontato anche lo stupore per le parole del sacerdote che nell’omelia ha parlato cristiano, annunciando la resurrezione di quel giovane. «Bisogna aver fede per credere nella resurrezione- scriveva Polito, - e non tutti abbiamo questa fede. Non io, purtroppo. Eppure lo straordinario trionfo della vita che è il Cristianesimo, la forza di un messaggio unico tra le religioni, ci ha cambiato tutti quella mattina. Ha alleviato il peso dal nostro cuore... Non avevo mai visto così tanti giovani in fila per prendere la comunione... E allora ho pensato: che guaio che il messaggio cristiano sia così indebolito nella nostra Italia.
Che forza ci darebbe per affrontare un tempo sempre più tumultuoso». Ma quanti preti, si chiedeva Polito, hanno il coraggio di parlare come quel sacerdote? «Perché mai la Chiesa non riesce più a fare oggi ciò che le riuscì splendidamente duemila anni fa?».
In realtà, se certi ecclesiastici balbettano, la Chiesa annuncia pure oggi questa vittoria sul male e sulla morte. Lo fa anche con la commovente testimonianza di tanti giovani (del nostro tempo) che hanno affrontato la malattia e la morte forti di questa certezza, alcuni dei quali saranno canonizzati durante l’Anno Santo.
Sarebbe bello se tutti noi cristiani (parlo anzitutto per me) riuscissimo a guardare anche la morte come san Francesco: «Sorella morte...». O come Takashi Paolo Nagai, il medico cattolico di Nagasaki sopravvissuto alla bomba atomica (che aveva ucciso sua moglie e incenerito la sua casa), il quale – avendo solo pochi anni di vita (per la leucemia) – scriveva: «Provate a immaginare se un bel giorno vi arrivasse un invito.
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