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Papa Francesco fa rientrare Parolin dal Burkina Faso: cosa c'è dietro

Marco Patricelli
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 Se le vie del Signore sono misteriose e infinite, quelle della diplomazia vaticana sono un enigma impenetrabile e ne contemplano persino una in più. Essa calibra le mosse con più avvedutezza di uno scacchista professionista, parla poco e con circospezione, e quando lo fa è con allusioni che lasciano una porta socchiusa ai retropensieri.

Frutto dei duemila tribolati anni di esperienza e ogni tipo di traversia e di sfida alle spalle e di fronte, con un potere che a dispetto di Stalin non si misurava con le divisioni dell’esercito del Papa.

Solo così, con questa forza, la Chiesa è uscita dalle catacombe per illuminare i sentieri della fede, con alti e bassi sì ma senza soluzione di continuità, sempre un passo avanti. Se Pio VII si oppose alle pretese di Napoleone col proverbiale e reciso «Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo», Papa Bergoglio dalla stanza al decimo piano del Policlinico Gemelli dov’è ricoverato rovescia la prospettiva con un «Dobbiamo, possiamo, vogliamo».

 

 

 

Ha fatto richiamare il segretario di Stato, monsignor Pietro Parolin, il braccio destro della sua missione terrena e il terminale spirituale del suo modo di intendere quella missione. Dal Burkina Faso dove si trovava in visita ufficiale dallo stesso giorno del ricovero di Papa Francesco, di nuovo a Roma, lì dove sono puntati gli occhi del mondo e non solo della cristianità. Un evento da interpretare, come tutti quelli all’ombra di San Pietro, ciclica riproposizione dell’ibis redibis della Sibilla, che cambia di significato a seconda dell’angolazione. Sono caduti molti tabù, ma non tutti, sull’aura sacrale del Vescovo di Roma, come quelli sulla salute, ma il Vaticano non è un palazzo di vetro, il colonnato è una sequenza svagante e il cupolone pur avendone viste di tutti i colori verso l’esterno fa filtrare sempre una sola voce: quella ufficiale, levigata, compassata, solitamente di poche ma soppesate parole, più per non dire che per dire.

Francesco dopo l’elezione si premunì con una disposizione di volontà di rinuncia in caso di impedimento, consegnandola nelle mani del cardinale Tarcisio Bertone, predecessore di Parolin.

 

 

 

Anche il termine impedimento è sibillino: Ratzinger se lo declinò espressamente e senza possibilità di ripensamento, e si dimise all’improvviso, ma dopo averlo ben ponderato, dichiarandolo in latino. Ma se Bergoglio ha voluto vedere il suo segretario di Stato può significare altresì che ha ritenuto di dover comunicare lucidamente ma direttamente all’interno del perimetro ferreo del proverbiale riserbo vaticano, dove la segretezza è virtù coltivata più e meglio che altrove. Anche questa è eredità di venti secoli, dalla persecuzione allo stato temporale, dalla lotta per il primato sull’impero al ridimensionamento nelle Mura Leonine, nel “ricciolo d’Italia” da dove la voce si leva Urbi et Orbi, a Roma e a tutto il mondo. E proprio nella nazione più piccola del mondo si intersecano l’austerità certosina, la determinazione dolce francescana, l’affabulazione domenicana, il culto del silenzio trappista e l’arguzia da sempre riconosciuta ed esercitata dai gesuiti, ordine al quale Jorge Bergoglio appartiene e di cui ha dimostrato sempre all’occorrenza di aver ben appreso e fatte proprie le qualità e le virtù.

 

 

 

Se la Roma papalina è l’enigma avvolto dal mistero, la stanza del Policlinico Gemelli dove si trova il Papa ammalato è più impenetrabile di un dogma della Chiesa o di un postulato matematico. Anche se non sul trono pontificio, ma in un letto di ospedale o seduto su una poltroncina, il Papa può finché vuole e deve finché lo ritiene.

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