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Woke, siamo stati i primi a copiare quelle follie. E saremo gli ultimi a liberarcene
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Ultimi tra i primi e primi tra gli ultimi, un po’ provinciali un po’ masochisti. Pronti a recepire senza filtri quelle che una volta si chiamavano “americanate” e a essere più realisti del re nel farle proprie. Nel riflusso di una delle più idiote crociate del XXI secolo, quel woke che presto sarà studiato come pandemia neurologica letale per il cervello, l’Italia delle canzonette non trova di meglio che adombrarsi nel nome di Sanremo perché il destino cinico e baro ha celebrato in un colpo solo maschilismo, patriarcato e pure un po’ di fascismo, che è come il prezzemolo e sta dappertutto, proponendo cinque cantanti in cinquina, tutti con cromosomi XY e neanche un’armonica XX a spezzare la litania dei premi. Si sono fatte rivoluzioni per molto meno, nella storia, e nel Belpaese che le rivoluzioni non ne ha mai fatte e ha tifato per quelle degli altri, è esploso l’ennesimo scandalo esistenziale che lacera le coscienze dei polemisti da tastiera.
Insomma, non bastava l’Università di Bari a raccomandare di non rivolgere il buongiorno a “tutti”, perché “tutte” e variazioni sul tema potrebbero aversene a male, ci mancava il Festival della canzone italiana a infischiarsene del politicamente corretto ignorando pure il Manuale Cencelli dei sessi come natura crea e di quelli percepiti a titolo individuale. Cinque maschi, un’offesa alla liquidità del cielo e non solo all’altra metà.
Il fenomeno woke – che dal mondo anglosassone dove è stato generato con inseminazione artificiale e partorito con cesareo – ha trovato brodo di coltura anche nello Stivale, ma si sta ritirando dappertutto dopo gli eccessi più degni di un trattato di comicità paradossale che di una causa sociale.
In Italia si tenta ora un’opera di rianimazione in articulo mortis proprio nel luogo deputato alla finzione, all’intrattenimento, ai tre pezzi spacciati per un mattone. Una questione di fuso orario relativamente a una moda scaduta, un ritardo culturale, un colpo di coda. Non bastavano gli asterischi, le levate di scudi, gli incisi di Elly Schlein che a qualsiasi categoria professionale si rivolge secondo formula stereotipata al femminile e al maschile (lavoratrici e lavoratori), con insormontabili difficoltà linguistico-omissive per i geometri che almeno il senso della misura ce l’hanno per deformazione professionale, e per i giudici al di sopra di ogni distinguo per definizione. E pure il/la cantante, (participio), non scherza mica.
Neanche l’obbrobrio della diga di schwa e asterischi, travolta da una marea di ridicolo, ha resistito a logica e buon senso, retaggio ormai di nostalgici furori di chi irriducibilmente è fuori dal tempo e dalla ragione.
Non bastavano Otello bianco e la sirenetta nera, e neppure 007 che è rimasto al palo perché non si sa quale colore e sesso possano mettere tutti d’accordo, e neanche gli improperi a Cristoforo Colombo che si era permesso di scoprire l’America invece di lasciare gli amerindi indisturbati e gli africani in Africa. Ci voleva un caso più eclatante di Catullo sessista, Alessandro Manzoni con la sua Lucia scialba, Garibaldi sciupafemmine con la moglie già sposata a un altro (Anita) o già incinta di un altro (Giuseppina) e per questo subito ripudiata.
Per il rantolo del woke ci voleva qualcosa di più forte e importante, come il Festival di Sanremo, da cui dipendono le sorti del Paese e le discussioni nei bar e in ufficio: dai lustrini per abbagliare a un abbaglio in piena regola, dalle sette note all’ottavo peccato capitale. L’ultimo, aggiunto per dogma dal pensiero obliquo, il più imperdonabile.
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Un santuario alpino sospeso nel tempo e nello spazio
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