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Fotocopie "uccise" da WhatsApp, l'emblematico caso a Fabriano

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Giordano Tedoldi
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Pochi giorni fa la Giano - rinomata ditta di Fabriano, nelle Marche, facente parte del gruppo Fedrigoni: e però tutti quanti identifichiamo la ditta stessa proprio col noto marchio “Fabriano” - ha spento per sempre la gloriosa F3, la macchina che dal 1976 produceva la carta “da ufficio”, in sostanza quella poi utilizzata per stampanti e fotocopiatrici, e soprattutto da cui si ricavava il mitico “formato A4”. È la fine di un’epoca, il leggendario “profumo della carta” che, un po’ pateticamente, veniva evocato come ingrediente irrinunciabile rispetto agli arrembanti formati digitali, non verrà più percepito dove, più che nelle case dei lettori, era davvero caratteristico: gli uffici. Siamo abbastanza vecchi da avere scolpite nella mente le grandi fotocopiatrici sempre in funzione, che partoriscono instancabilmente copie su carta, più che odorosa, fragrante, come pani appena sfornati. Quell’odore un po’ bruciaticcio, di ozono, emesso dalla macchina intrideva i fogli che venivano raccolti dalla sua pancia sempre fertile, almeno fino a quando non finiva il toner, o l’inchiostro.

Oggi, gli uffici sono ambienti molto meno rumorosi e profumati, almeno per quanto riguarda le emissioni cartacee: tutto si fa via e-mail, Whatsapp o altri servizi di messaggistica istantanea. Il destino della produzione di carta da ufficio era segnato, anche per quei marchi che, essendo storici, sembrano destinati a durare in eterno, immuni dai progressi tecnologici. Senonché efficienza, risparmio, velocità sono requisiti indispensabili per ogni ufficio, e che condannano le stampanti e le fotocopiatrici a un posto di tutto rispetto nel museo della tecnica.

I dipendenti della Giano, quando è calato il sipario, hanno versato anche qualche lacrima, e sicuramente non sarà stato solo per il timore di perdere il posto, eventualità che sembra comunque scongiurata con un anno di cassa integrazione straordinaria, per poi essere ricollocati negli altri cinque stabilimenti di Fabriano, e in quelli del nord Italia, dove l’azienda si concentrerà su passaporti e prodotti premium.

La commozione dei dipendenti è quella di chi ha contribuito alla vita lavorativa e produttiva del Paese fornendogli fogli di carta per quasi mezzo secolo, fogli che saranno finiti in uffici di ogni genere, pubblici e privati, piccoli e grandi, dall’infimo studio professionale alle più solenni amministrazioni dello Stato, e che ora è superato e reso superfluo dal messaggino con l’allegato. Com’è spietata la tecnologia!

Ma lo sappiamo: è inutile rimpiangere il passato, che per definizione non torna, se non in forma di hobby, o secondo Marx, di farsa. Quei singolari templi laici che sono gli uffici hanno oggi nuovi paramenti sacri, nuovi arredi liturgici, nuovi incensi diversi dal profumo della carta, altri segnali che non siano il ronzio della fotocopiatrice o il borbottio della stampante, e gli impiegati avranno già imparato a affezionarsi a questi.

Tuttavia, non si parla soltanto del mero cambiamento di un supporto, dalla carta al digitale: la trasformazione ha senz’altro una portata più ampia, che si estende al nostro senso dell’esperienza. Inutile girarci intorno: il supporto fisico, in ogni campo – si pensi al revival del vinile nella musica – ci fa sentire in possesso di qualcosa che ci somiglia, tangibile e sensibile come lo siamo noi. Il pdf di un contratto, o di un’ordinazione, dal punto di vista delle nostre tasche, ha le stesse conseguenze del medesimo documento fotocopiato, ma è come se fosse un po’ meno reale, un po’ meno importante e consistente.

Ci stiamo già abituando a questa smaterializzazione, che porta con sé benefici economici ed ecologici. Ed è anche vero che i documenti digitali, ormai, hanno tutte le possibilità di essere modificati, annotati, evidenziati proprio come gli antenati cartacei.

Ma allora perché, se vediamo qualcuno, in un ufficio, prendere una penna in mano, portarla sopra un foglio e farci cerchietti, scrivere note, sottolineare passi, ci sembra che stia lavorando intensamente, e invece il collega accanto, che sta scrollando il cellulare e digitando, pare che al confronto stia rubando lo stipendio? E non c’è il rischio che tutta questa istantaneità, questa velocità, e la vaporizzazione dei supporti, rendano il lavoro stesso meno piacevole, meno, per così dire, artigianale, per farci assomigliare ad algoritmi in carne e ossa?

Salutiamo con inevitabile ottimismo la scomparsa della carta quando non è più necessaria, ma non dimentichiamo la sua poesia, che talvolta faceva sembrare il lavoro un’arte, e che obbligava a quella lentezza che oggi tutti rimpiangono, e che cercano di recuperare magari meditando, quando prima lo si faceva assorti davanti alla fotocopiatrice che finiva di stampare.

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