Ape, l'estremismo verde fa un'altra vittima: il mitico motocarro scappa in India
È un po’ la fine di un’epoca, un cambio generazionale che (però) di generazioni ne ha viste parecchie salire e scendere dal suo cassone posteriore; è l’ultima “vittima” del green -deal occidentale. L’Ape. L’Apecar, l’Apino: in tutte le sue varianti nominative regionali perché iconica come lei c’è d’avvero poco altro. Verde scuro, rossa o azzurro carta da zucchero: quelle tre ruote inconfondibili, il moto-furgone colp posto di guida coperto per eccellenza. Lo usano gli artigiani di mezza Italia e gli studenti non ancora maggiorenni dell’altra metà, dei piccoli (o amatoriali) contadini non ne parliamo, va al massimo a 45 chilometri all’ora (ma tanto basta) e non c’è campagna, stradina di provincia, ma anche arteria di città, che non ne abbia una parcheggiata a bordo carreggiata.
Allo stabilimento della Piaggio di Pontedera, in provincia di Pisa, dopo una storia gloriosa di 76 anni, l’Ape spegne per sempre il suo motore a due tempi. Tutto finito, stop, produzione sospesa entro la fine dell’anno (che vuol dire meno di un mese): l’unico mercato in cui, semmai, conviene ancora insistere è quello dei tuk-tuk asiatici, d’ora in poi verrà assemblata unicamente in India. Attenzione: non è una delocalizzazione, non vuol dire che Pontedera chiude i battenti e arrivederci (tra l’altro il sito della Piaggio resta aperto, anche se si concentra su altro: per esempio sul Porter city-truck, che è l’evoluzione dell’Ape ma, siamo onesti, con un nome assai meno poetico). E quella dell’indiana Baramati non è nemmeno una “new entry”, lì è dagli anni Sessanta che l’Ape viene già prodotta, sia per l’Asia e che per l’Africa.
Però è un cambio di passo. È un mondo (il nostro) che finisce. Per giunta per due ragioni altamente definite. La sicurezza da una parte e le misure green dall’altra. Nel primo caso il discorso è semplice: in Italia, come nel resto d’Europa, le normative per le vendite di auto sono sempre più stringenti. Per adeguare l’Apecar agli standard di oggi bisognerebbe, tanto per dirne una, dotarla di airbag. O di Abs. O di rilevatori radar per le distanze. Ma allora anche il prezzo lieviterebbe, e soprattutto l’eroico Apino non sarebbe più l’Apino: chi lo comprerebbe, con una tariffa base di, la buttiamo là, almeno diecimila euro? Una spesa fuori mercato.
Il secondo aspetto, quello eco-sostenibile, è un tantinello più articolato: dall’anno prossimo cambiano le regole per la motorizzazione. Non sarà più possibile, da noi, vendere motori a due tempi Euro 4, quelli che appunto fanno girare l’Ape sulle vie lombarde o siciliane o calabresi (differenza territoriale, per una volta, zero). Sarebbe un po’ come proporre nelle concessionarie la vecchia (altro modello mitico) Panda del 1980 o la Fiat Uno che nel 1984 era addirittura stata eletta auto dell’anno nella rassegna di Cape Canaveral, Usa. Una sorta di anacronismo. Che a ben vedere suona anche come un paradosso: 742 milioni di europei si privano dell’Ape perché è più inquinante di una macchina ibrida e nel frattempo ci scorazzano su ben 1,4 miliardi di indiani. Ma va così.
Va che Ape addio, Ape ci mancherai, Ape noi che t’abbiamo conosciuto non ti dimenticheremo facilmente. I delegati sindacali di Pontedera hanno saputo della decisione della Piaggio qualche settimana fa: «Era prevedibile», dice il segretario della Fiom di Pisa Angelo Capone, «è una scelta in qualche modo obbligata, non abbiamo preoccupazioni (per quanto riguarda l’aspetto occupazionale della faccenda, ndr): l’azienda ci ha detto che non ci saranno ripercussioni sui lavoratori. Spiace per quello che l’Ape rappresenta, comunque».
Più di due milioni di modelli venduti, in tutto il mondo, da quel lontano 1948 che ha dato il via a una storia laquale è un vanto nazionale riconosciuto praticamente ovunque. Ci sarà il Porter, adesso, che nel 2021 è stato pensato bifuel e da circa un mese ha inaugurato persino la sua versione elettrica. È un’Apecar “di lusso”, ha una ruota in più, è oggettivamente un’altra cosa. È il futuro, però: e con tutta la nostalgia, l’amarcord, i ricordi che ci abbiamo lasciato su, non si può fare altrimenti.