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Le femministe contro le donne, scordano gli orrori di Hamas e contestano la Meloni

Claudia Osmetti
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Qualcosa non quadra. Ché se il femminismo è diventato questa cosa qua, un’accozzaglia di slogan rabbiosi, una sfilata di berci e urla che a rigor di logica (ma chi ci fa più caso, alla logica?) è pure paradossale, se non addirittura controproducente, un problema c’è: però non è (solo) il patriarcato.

Precisazione: qui a Libero nessuno nega che le violenze sulle donne siano un orrore senza fine. Se picchi o violenti tua moglie o tua figlia o una tua amica o una ragazza che manco conosci, stronzo sei e stronzo rimani. Punto.

Però poi, se la sacrosanta lotta di piazza per ribadirlo si trasforma in un corteo pro-Pal pittato di rosa oppure in un invito a cielo aperto a «un aborto con le amiche», neanche fosse un party da celebrare con un cosmopolitan in mano e guardando tutte assieme Sex and the city, ragazze, il rischio è di scivolare nel cortocircuito. Anzi, il pericolo è quello di mandare all’aria anni di conquiste (giustissime) che ci siamo guadagnate quando la protesta era ancora una cosa seria. E magari non ideologica o di parte.

 

 

 

Invece a scorrere i cartelli, le rivendicazioni, i manifesti con cui, sabato pomeriggio, il popolo della resistenza femminile ha invaso il centro di Roma, ci si imbatte, per esempio, in commenti del tipo: «Vogliamo un aborto libero, sicuro, gratuito e garantito davvero per tutte. (...) Vogliamo poter abortire a casa, in telemedicina, con le amiche se ci va». Ora, sorelle, lungi da noi il metterci in cattedra (il cielo ce ne scampi) per impartire lezioni di storia a chicchessia, ma avete una vaga idea di cosa sia statala battaglia per la legalizzazione dell’aborto negli anni Settanta? Quella coloratissima, rivoluzionaria campagna per impedire che l’aborto venisse praticato dalle mammane, con qualche attrezzo improvvisato, senza l’ausilio di un medico, magari sul tavolaccio di una cucina non sterilizzata? Ve l’hanno spiegato che la vittoria è stata esattamente ottenerlo nei consultori, in strutture dedicate, gestite dai professionisti? D’accordo (sentiamo già la contropartita): è-una-provocazione, il-discorso-è-ampio. Epperò proprio per questo: banalizzarlo con boutade del genere «il diritto all’aborto con le amiche» non aiuta la causa. Tutt’altro.

 

 

 

Come tutt’altro supporta la lotta contro il patriarcato la propaganda propalestinese che, è vero, oramai è d’obbligo in qualsiasi consesso pubblico preveda la partecipazione di più di tre persone, ma che nel caso delle marce a favore delle donne lascia il tempo che trova più che altrove. «Non esisterà una Palestina libera senza la liberazione delle donne e non esisterà la liberazione delle donne senza la liberazione della Palestina». Perfetta sintesi, però da indirizzare ad Hamas e a tutti quei movimenti islamisti che da ben prima del 7 ottobre, a Gaza, impongono alle donne di non girare da sole e concedono loro una passeggiata unicamente se sono accompagnate da un parente maschio, che le trattano come bambini dalla capacità giuridica ridotta sicché in tribunale la testimonianza di una ragazza di Rafah vale la metà di quella di un suo coetaneo uomo, o che le “sposano” quando hanno meno di quindici anni, o che non si fanno un cruccio se non lavorano, che un corteo come quello per il 25 novembre, nella Striscia, lo sederebbero a suon di arresti. (Aperta parentesi: le piazze occidentali si laverebbero un tantinello la coscienza se nei loro interventi sempre più piccati si degnassero, qualche volta, di ricordare la coraggiosissima, quella sì, resistenza delle donne iraniane o la vergognosa situazione a cui sono costrette quelle afghane che dall’ultimo diktat dei talebani manco possono parlare in pubblico; però zero, in questo caso non si leva lo sdegno di una mezza lamentela; chiusa parentesi).

In compenso, fiocco fucsia legato al braccio e microfono in mano, le attiviste di «Non una di meno», in Italia, difendono le «cattive maestre per una scuola transfemminista», qualsiasi cosa voglia dire e purché sia permesso bruciare la foto del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara: quella non è violenza, eh? Oppure specificano che «la testa del corteo è per le donne e le soggettività non binarie dei centri antiviolenza e in percorsi di fuoriuscita dalla violenza» che, al di là delle buone intenzioni, si traduce di fatto in una sorta di opera di etichettatura di massa: tutti (loro userebbero la schwa) ben catalogati e con gli uomini in fondo, non sia mai riconoscere quando uno di loro, vivaiddio, tende una mano di solidarietà. Infine si armano di megafono e scandiscono, forte che più forte non si può: «Vattene Meloni, vattene» dimenticando (o forse no, e il punto è proprio questo) che in 78 anni di repubblica italiana non c’è mai stata una premier donna, che prima di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi ci son stati solo uomini più o meno impomatati, ma loro niente. Non se la prendono genericamente col governo (che anche linguisticamente sarebbe maschile), no. Attaccano la presidente Meloni perché ciò che conta, evidentemente, non è difendere le donne, è difendere le donne che la pensano in un dato modo.

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