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Bologna come Genova 1960, la piazza violenta come mezzo politico

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Annalisa Terranova
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Bologna 2024 come Genova 1960. La tentazione che serpeggia a sinistra, nel Pd e nei gruppi satelliti, da decenni, è sempre la medesima: cavalcare l’insurrezione di piazza nella speranza della “spallata” al governo nemico. Con Tambroni ci riuscirono, ma oggi la faccenda è un po’ più complicata. Innanzitutto ci sono i video: e si vede molto bene da che parte stanno i violenti e la parte non è quella delle presunte “camicie nere”. Poi c’è stato un comitato per l’ordine pubblico che ha deciso di non vietare il corteo dei “patrioti”.

Infine c’è stata la vicesindaco che era in piazza con gli antagonisti pronti a menar le mani. E da ultimo un sindaco pasticcione che accusa il governo di eversione («Hanno mandato trecento camicie nere»). Alcuni aspetti dell’intera vicenda sono tragicomici. Tragici perché evocano appunto anni bui di contrapposizioni estreme. Comici perché i protagonisti dello scontro dei lutti degli anni di piombo non hanno ricordi né consapevolezza. La loro è una recita.

Uno è il sindaco Lepore, in caduta libera nelle classifiche sul gradimento e incapace di dare risposte sulla sicurezza in città. Gli altri sono i camerati di CasaPound che ritengono di doversi rimettere in gioco approfittando dell’autunno caldo. Questo il quadro ma detto ciò va ribadito che non sono quelli di sinistra che decidono chi deve manifestare e dove e quali manifestazioni rappresentano un oltraggio alla città. Lo stabilisce il prefetto.

 

 

 

Torniamo a Genova 1960. Con la scusa di un congresso del Msi indetto nella città della Lanterna (e poi annullato) il Pci scatenò la piazza (vi furono decine di feriti tra manifestanti e forze dell’ordine) e provocò la caduta del governo guidato dal democristiano Tambroni, un monocolore che aveva avuto l’appoggio esterno dei missini. Una mossa grazie alla quale si aprì la stagione dei governi di centrosinistra.

Ma davvero la molla della battaglia di piazza de’ Ferrari a Genova fu il congresso missino? No. Quello era una scusa (come è una scusa oggi il corteo dei “patrioti” a Bologna). E lo ribadì Emanuele Macaluso al giornalista di destra e scrittore Adalberto Baldoni: «Il problema era costituito dal governo Tambroni. Non potevamo consentire che il Msi potesse sostenerlo. Anche se la sede congressuale fosse stata un’altra, il Pci si sarebbe ugualmente mobilitato».

Lo stesso Tambroni in aula alla Camera (14 luglio 1960) adombrò la regia comunista dietro la piazza. Oggi gli darebbero del complottista. Ma Tambroni era limpidamente consapevole di ciò che era accaduto e prese ad esempio le manifestazioni che dopo Genova cominciarono a essere indette in altre parti d’Italia. «Contro che cosa si voleva protestare?», disse in aula l’allora presidente del consiglio «contro il congresso del Msi che non aveva avuto luogo?

Contro la polizia la cui brutalità era stata così grave da aver riportato perdite ben maggiori dei dimostranti e non aveva fatto alcun uso delle armi? Il fine politico era chiaro per i comunisti: uscire dall’isolamento provocato dal processo autonomistico del Psi tentando la costruzione di un fronte su di un motivo, quale la Resistenza e l’antifascismo, capace di raccogliere i consensi della maggior parte degli italiani».

Rilette oggi, alla luce delle dichiarazioni attuali degli esponenti di sinistra, sono parole che fanno impressione perché denunciano il comportamento dei “compagni” sempre identico a se stesso. Altro che manifestazioni spontanee, altro che gente che dalle finestre canta Bella ciao come ci hanno raccontato sarebbe avvenuto a Bologna. Ferdinando Tambroni morì tre anni dopo quelle vicende per un infarto. Pochi giorni dopo aver ricevuto da Aldo Moro la comunicazione che non sarebbe stato candidato alle elezioni politiche di aprile. La Dc lo abbandonò. E – ebbe a dire Andreotti – «la sua salute ne risentì».

Ma veniamo all’oggi. Si diceva di una tentazione ricorrente di riproporre il “modello Genova 1960”. Maurizio Landini che oggi chiama alla rivolta sociale è stato dirigente Fiom con Giorgio Cremaschi. I due con le parole incendiarie hanno dimistichezza. Cremaschi, appena insediatosi il governo Meloni, plaudiva agli studenti che occupavano La Sapienza ricordando proprio i moti di Genova: «Grazie agli studenti, nel 1960 a Genova il popolo degli antifascisti insorse tra le botte della polizia per impedire il congresso del Msi. Grazie agli studenti della Sapienza di Roma che suonano la sveglia dal sonno che genera i mostri. Ora e sempre Resistenza».

E che dire di Nicola Fratoianni che predica che i fascisti «non devono avere diritto di cittadinanza» né nelle piazze né altrove? È il via libera alla caccia all’uomo. E sia anche consentito sottolineare che i morti della strage di Bologna sono oltraggiati dai saluti romani ma anche da chi li strumentalizza per bassi scopi elettorali. Così come si strumentalizzano le lamentele di un sindacato di polizia (ma non erano tutti “manganellatori” i poliziotti?) utilizzando un video in cui si vedono due dirigenti del corteo di CasaPound chiedere alla polizia di far abbassare gli scudi agli agenti per non alimentare tensioni. Un normalissimo dialogo tra forza pubblica e servizi d’ordine dei cortei quando vi sono in una manifestazione momenti di tensione. Ma questi, che vivono di fantasmi non ancora esorcizzati, o non ne sanno nulla o sono in malafede. E la seconda ipotesi è la più probabile. Del resto i loro amichetti antagonisti non parlamentano nemmeno con la polizia. Passano subito dagli insulti all’azione, allo scontro, al lancio di sassi, petardi e bottiglie. Tutta roba santificata, quella, nel nome della religione dell’antifascismo.

 

 

 

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