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Dossieraggio, la "boutique" degli spioni: quanto costava ogni fascicolo

Brunella Bolloli
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Ci sono almeno 400 clienti più o meno famosi che nel corso degli anni si sono rivolti a Equalize. Pagavano e ottenevano le informazioni richieste ignorando i mezzi illeciti con cui la società guidata dall’insospettabile e distinto Enrico Pazzali e dall’altrettanto insospettabile ex super poliziotto Carmine Gallo, si procacciava le notizie. Dalle fatture fra il 2022 e il 2024 allegate agli atti dell’inchiesta condotta dal pm della Dda di Milano, Francesco De Tommasi, emerge come si tratti per lo più di grandi aziende del calibro di Barilla, Erg, Amazon, oltre ad Autostrade per l’Italia, Moby, Apple, Aruba, Bennet e altre. Equalize, del resto, era una società certificata, con sede a due passi dal Duomo di Milano, in via Pattari, e contatti stretti sia in ambienti istituzionali che nei tribunali. Il capo Pazzali, che i soci chiamavano “lo zio bello”, come si evince dalle foto viaggiava con autista con tanto di paletta con stemma della Repubblica e la dicitura “Prefettura di Milano”.

Niente di strano, forse, se si pensa che era presidente della Fondazione Fiera (si è autosospeso) e intratteneva rapporti con i vertici delle istituzioni non solo lombarde ma anche nazionali. Tuttavia Pazzali, indagato, dovrà spiegare molte cose di ciò che avveniva nella sua Equalize, a partire dal confezionamento dei dossier e dal pagamento richiesto ai danarosi clienti.

 

 

 

Secondo i carabinieri del Nucleo investigativo di Varese, tre erano i modelli di business della società di via Pattari, così come diversi erano i prezzi “al pubblico”: mille, 5mila e 15mila euro. C’erano i tips «più semplici» contenenti «dati esfiltrati abusivamente» solo in «alcune circostanze»; i kyc dove di norma il gruppo inseriva il proprio «know-how per mimetizzare» la presenza di dati esfiltrati; infine gli eidd, dove oltre alle informazioni provenienti da Sistema informazione interforze, venivano inseriti dati di «natura economico finanziaria» come Siva (Sistema informativo valutario) o anagrafe dei conti correnti. Per gli investigatori la percentuale di dati illeciti all’interno di ciascuna tipologia di report varia dal 50% dei tips, con un profitto di 500 euro sui «costi di produzione», all’80% dei kyc (guadagno illecito di 4mila euro) fino ai 13mila dell’ultima tipologia dove quasi il 90% delle informazioni sarebbero acquisite illegalmente. Insomma, il tariffario variava e accresceva profitto. «Prima eravamo Ikea, ora siamo una boutique», si vantano gli organizzatori in una conversazione del 5 settembre scorso.

Se Pazzali e Gallo erano la mente del gruppo, il braccio destro e il più tecnologico era Nunzio Samuele Calamucci, oggi ai domiciliari. È lui che rivela di avere «un segreto nel cuore», un progetto chiamato Safe Harbour (Porto sicuro), che prevedeva la creazione di una società schermo, con sede a Reggio Emilia e capitale sociale esiguo, nata per ragioni di sicurezza nel caso di accertamento e indagini. Safe Harbour era a casa di Giulio Cornelli, uno dei giovani pirati informatici del gruppo milanese e, nella mente degli ideatori, avrebbe dovuto portare nuove risorse movimentandole da Equalize e allo stesso tempo allontanare da via Pattari la catena di formazione e distribuzione dei report e di gestione della piattaforma Beyond. In sintesi, il dossieraggio e la raccolta abusiva di informazioni riassemblate in report all’apparenza lecita, avevano portato la “banda” di Milano a ricercare nuovi uffici, perfino a Londra, e all’idea di una società “schermo” in caso di guai.

 

 

 

Della squadra fa parte anche Gabriele Edmondo Pegoraro, ingegnere vicentino 48enne dipendente della Bitcorp, una delle società che fornisce servizi di intercettazione per la Procura di Milano, con il ruolo di “chief innovation officer”. Un consulente dei pm che omette di comunicare ai magistrati di essere in rapporti d’affari con le stesse persone sotto inchiesta. Sarà per questo che ieri alcuni consiglieri del Csm (Marco Bisogni, Ernesto Carbone e Genantonio Chiarelli) hanno avviato una pratica per «verificare la tenuta, in termini di sicurezza, dei sistemi informatici negli uffici giudiziari».

Ma c’è altro. Nel “verminaio” di accessi abusivi e gruppi di presunti spioni uniti da un filo che va dal caso Striano-Laudati, su cui indaga il procuratore di Perugia Cantone, alla vicenda di Milano, alla Squadra Fiore di Roma, l’hacker Calamucci ha pensato bene di tirare in ballo Marco Mancini, l’ex 007 del Dis già noto per molti fatti di cronaca. «Mancini è un componente doppio Mike della Squadra Fiore», dice Calamucci in un’intercettazione agli atti dell’inchiesta. «Gli unici fiori che conosco sono quelli del mio giardino», è la replica di Mancini. E il suo legale, Luca Lauri, aggiunge: «Il mio assistito non conosce né ha mai avuto rapporti con Calamucci e Gallo e tutelerà in ogni sede la sua reputazione».

 

 

 

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