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Rosanna Rapellini: "Ho curato i partigiani ma li odierò sempre: uccisero mio padre"

Alessandro Dell'Orto
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Signora Rosanna Rapellini, bel cappello.
«È il basco originale delle crocerossine, faceva parte della divisa. Mi è rimasto solo questo, il resto l’hanno portato via i partigiani».

Le decorazioni al petto?
«Una è la “croce al merito di guerra”, l’altra è la medaglia della “Repubblica Sociale”».

Conserva tutto ancora con orgoglio?
«Sfoggio questi ricordi in occasioni particolari come i raduni: l’ultima volta, alla Piccola Caprera a Ponti sul Mincio (a Mantova, dove c’è la sede del Museo storico del Reggimento “Giovani Fascisti” ndr), dopo la mia testimonianza il cappellano ha detto: “Niente predica, ha già detto tutto Rosanna”».

Ad ascoltarla ci sono anche giovani?
«Tanti e sono quelli più interessati. Sa che spesso vengono qui a casa a trovarmi i ragazzi di CasaPound? Vogliono sapere veramente come è la storia d’Italia, perché nelle scuole gli insegnanti saltano dei periodi o raccontano balle».

Lei che risponde?
«Racconto i fatti, in modo che poi possano valutare con la loro testa».

La bugia che più la infastidisce?
«La questione Abissinia».

Cioè?
«Le donne subirono violenze fisiche e gli inglesi diedero colpa agli italiani: nessuno però ricorda che Mussolini, appena conquistata l’Abissinia, aveva chiesto agli italiani rispetto per la popolazione e in particolare per le donne. Io continuo a leggere e informarmi, sa?».

 

 

 

Cosa legge?
«Libri, giornali, periodici come “L’ultima Crociata”. La mia giornata la passo così, stimolando la mente».

È questo il segreto per arrivare a 100 anni?
«Tenere il cervello attivo è fondamentale perché se funziona lui poi funziona tutto».

Altri trucchi? Il cibo?
«Io mangio di tutto. Mi piacciono molto riso e gorgonzola, che sono tipici di queste parti».

Lei, però, non è nata qui, vero?
«Ad Ala di Trento il 5 settembre 1924».

Torniamoci insieme.
«Papà Francesco, ferroviere, è stato nella milizia fascista e lo mandano in servizio lì nella polizia ferroviaria perché è una zona appena conquistata dopo la guerra’15-’18 ed è città di confine. Mamma Guglielmina invece fa la casalinga».

Lei che bambina è?
«Tremenda, dispettosa. Mio padre, per prendermi in giro, dice che appena nata mi sono girato verso i crucchi e ho respirato la loro aria, così mi è venuta la testa dura».

Buona questa. Figlia unica?
«Una sorella: Aurelia, che nascerà 11 anni dopo».

Quanto vi fermate ad Ala?
«Poco, papà viene trasferito spesso: andiamo sul Lago di Garda e, nel 1930, ad Arona, dove inizio le scuole che poi proseguo in collegio a Novara.
Quando mi mancano solo gli esami per diplomarmi in ragioneria, però, scoppia la guerra».

Sono gli anni del fascismo.
«In casa mia si respira da sempre aria fascista. Papà ha partecipato alla Marcia su Roma nel ’22 e io faccio tutta la trafila: Figlia della Lupa, Piccola Italiana e Giovane Italiana».

E sposa le idee del Duce?
«Impossibile non farlo. Non tutti lo ricordano, ma in quel periodo i libri di scuola li passa lo Stato dalla prima elementare fino alle superiori, ci sono le colonie estive gratis, per gli operai viene riconosciuta la mutua, l’Inps funziona. E poi...».

Dica.
«Parliamo di donne. Le ragazze madri, che erano abbandonate anche dalle suore perché considerate peccatrici, grazie al Duce vengono assistite fino al parto e, se tengono il bambino, gli viene riconosciuto un posto di lavoro».

Il 25 luglio 1943, però, il fascismo cade.
«Tutti i vigliacchi che erano stati zitti fino a quel giorno vengono allo scoperto, anche molti che avevano appoggiato Mussolini. Prima del 1943 non avevo mai visto un partigiano».

Aderisce subito alla Repubblica Sociale o tentenna?
«Nessun dubbio, la considero il proseguimento naturale del lavoro del Duce».

Però lui sta con Hitler...
«Scelta obbligata: avere contro la Germania sarebbe stato peggio».

Restiamo alla guerra, nel 1944 lei si arruola nel SAF (Servizio Ausiliario Femminile) come crocerossina. Quando nasce l’idea?
«È il sogno fin da bambina, quando fingo di curare le bambole. Appena a Novara esce un bando di concorso per crocerossine mi presento».

E diventa una delle prime Ausiliarie d’Italia.
«Siamo ospiti delle suore Giuseppine e io presto servizio in ospedale, ma a giorni alternati vado anche alla stazione per distribuire viveri al passaggio delle tradotte dei treni carichi di soldati».

 

 

 

Rosanna, domanda diretta. Ma in ospedale cura sia fascisti che partigiani?
«Nessuna distinzione ideologica, in quel periodo capita anche di aiutare i partigiani. Li guardo, dico: “Con una puntura potrei farti partire subito, ma rispetto il mio lavoro”. E li salvo».

L’odio per i partigiani però è sempre forte in lei. Anche adesso?
«Come potrebbe essere diversamente? Posso raccontarle di mio padre?».

Certo.
«Nell’estate del ’44 viene a trovarmi a Novara mentre faccio il corso da crocerossina. Quando è in treno, in borghese e disarmato alla stazione di Crusinallo, poco prima di Omegna, una signora si affaccia al finestrino e urla “Fermatevi, a bordo c’è un fascista”. Quattro partigiani gli chiedono di seguirlo per accertamenti e lui accetta perché si sente in pace con se stesso: “Non ho fatto niente, ho solo servito la mia Patria”. Da quel momento non lo rivedremo mai più. E non troveremo mai più il corpo».

Che tragedia. Restiamo al 1944, 20 ottobre.
«Sono a Milano, in stazione, per ritirare le nuove divise. Un militare vede che ho lo stemma della croce rossa sui vestiti: “È successo un disastro, può aiutarci?”. Lo seguo e mi porta nel quartiere Gorla».

Dove gli americani hanno appena bombardato una scuola elementare uccidendo 184 bambini.
«Un disastro. Macerie, bimbi squarciati, pezzi di corpi ovunque».

Chiuda gli occhi, Rosanna. C’è un odore che ricorda di quella scena?
«Puzza di esplosivo e fumo».

L’immagine che non dimenticherà mai?
«Una scala distrutta a metà, con davanti la maestra e dietro i bimbi in fila. Tutti morti mentre cercavano di scappare».

Lei che fa?
«Il cappellano mi guarda e dice: “Rosanna, il Signore ti perdonerà”. E inizio a ricomporre i corpicini mettendo insieme i resti che trovo qua e là. Guardi, io in guerra ne ho viste di tutti colori, ma mai una cosa così. Per settimane sono stata malissimo».

Sei mesi dopo, il 25 aprile, in Italia cambia tutto.
«Proprio il giorno prima mi mandano a Varese in un’ospedale più grande. Dovremmo vivere dalle suore, ma veniamo cacciate per paura di rappresaglie. Un’amica Ausiliaria, allora, mi propone di andare a Genova da sua zia».

E lei vi aiuta?
«Ci dà abiti civili, ma non può ospitarci e proseguiamo per Livorno a piedi, chiediamo di poter fare piccole lavoretti in cambio di un pasto e dormiamo dove capita. Sempre in fuga fino a ottobre. Poi torno a Suno e trovo mamma e sorella ospiti da mio zio».

Come mai?
«La casa è stata ripulita dai partigiani ed è rischioso tornarci ad abitare. Si sono portati via tutto, quei bastardi, vestiti, mobili perfino casse con dentro i libri. Dopo la denuncia potrei riprendere ogni cosa, ma mi rifiuto: sapere che tutto ciò è stato nelle mani di quelle persone mi fa schifo».

La gente del posto come la accoglie?
«A Novara, in stazione, c’è il mio nome sul manifesto con l’elenco di tutte le persone che dovrebbero essere ammazzate. In paese vivo nascosta, poi decido di fregarmene e tornare alla vita normale. E inizio a lavorare in uno studio commercialista a Novara».

In quegli anni conosce suo marito.
«Liliano me lo presentano in balera, a Suino. Ci fidanziamo e nel 1953 ci sposiamo. Perdo subito un bimbo, purtroppo, poi nel ’55 nasce Francesco».

E la politica continua a seguirla malgrado la famiglia?
«Aderisco al Msi e divento segretaria del Cisnal, il suo sindacato. Nei primi Anni ’60 mi impegno nel recupero delle salme dei Caduti della Rsi».

Cioè?
«Una cinquantina di morti, molti dei quali ammazzati a guerra finita, sono seppelliti all’ingresso del cimitero di Novara e sulle croci c’è scritto semplicemente “Ignoto”. Il sindaco comunista però li vuole spostare, gli danno fastidio».

E lo fa lei?
«Recupero della stoffa e ogni giorno riesumo tre o quattro cadaveri, ricomponendoli nelle cassette funebri e adagiandoli nel sacrario sotto la scritta “Caduti per la Patria”».

Perché questa strana smorfia?
«Mentre faccio questo lavoro, spesso, arrivano le donne del posto e mi tirano i sassi, mi sputano addosso e mi urlano “puttana”. Tutte comuniste».

Rosanna, ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Sono cattolica, ogni mese faccio la comunione».

2) Paura della morte?
«Fa parte della vita, so che prima o poi dovrò andare di là. Spero di non incontrarci partigiani...».

3) Del fascismo le manca...
«L’ordine, la pulizia».

4) Incontrasse oggi Mussolini cosa gli direbbe?
«Che ha sbagliato a trattare così bene gli italiani, gli hanno fatto fare brutta figura».

Ultimissima, ha ancora un sogno?
«Sì, vorrei sapere che fine ha fatto mio padre».

 

 

 

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