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Giorgia Meloni e il cortocircuito femminista sul primo premier donna

Annalisa Terranova
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Due anni di governo di una premier donna. Un dato sottolineato da pochi, anzi da pochissimi e quasi sempre con accenti negativi. Per il quotidiano Avvenire, per esempio, Giorgia Meloni imita «il maschile nel gestire il potere». Insomma, batti e ribatti, si torna sempre all’assioma di partenza: Meloni non ha sconfitto il patriarcato, anzi ne sarebbe il frutto.

Cominciamo allora con lo sgomberare il campo da un dato: la destra, che ha innegabilmente una tradizione maschile e anche maschilista, si è adagiata sui successi di una leader donna ritenendo che fosse sufficiente l’arrivo di Giorgia a Palazzo Chigi per esaurire la questione femminile. Le voci delle donne di quell’area sono flebili, o assenti. Anche di questo si parlerà nel convegno del 16 novembre a Roma promosso dall’Arsenale delle idee e intitolato “L’altro femminismo”. Un modo per ricordare che anche a destra ci sono donne che stanno dalla parte delle donne. E a sinistra? Qui stanno messi assai peggio. E proprio perché da subito hanno rifiutato di riconoscere nell’ascesa di Giorgia Meloni un fattore di rilievo storico. Al punto da ritirare fuori il malconcio tema del patriarcato.

 

 

 

TETTO DI CRISTALLO
Basti ricordare, in proposito, l’argomento retorico utilizzato da Elly Schlein: a che serve una donna al potere se non fa nulla per le altre donne? Intanto, ha ribattuto la compagna e femminista old style Paola Concia, Giorgia è servita a fare diventare proprio Schlein segretaria del Pd. «Meloni – ha detto Concia- ha rotto il tetto di cristallo per tutte, anche per chi non è di destra come lei». Non meno corrosiva Marina Terragni: «Quindi, seguendo questo ragionamento, una donna che potrebbe diventare presidente del Consiglio ha di sicuro un pensiero maschile. Mentre l’alternativa, necessariamente un uomo, garantirebbe di più le donne. Fa pensare».

La sinistra ha poi polemizzato su questioni linguistiche: il partito che si chiama Fratelli d’Italia e non menziona le sorelle (Natalia Aspesi), l’indicazione di farsi chiamare “il” presidente anziché “la” presidente. Sono posizioni antifemministe? No perché il nome del partito proviene dall’Inno nazionale che ricomprende italiani e italiane e la questione dell’articolo “il” è stata solo burocratico-grammaticale: nel caso di una premier donna prevale il genere o la funzione? La stessa Meloni liquidò la faccenda in poche frasi: «Leggo che il principale tema di discussione sarebbe attorno a come definire la prima donna presidente del Consiglio. Fate pure. Io mi sto occupando di bollette, tasse, lavoro, certezza della pena, manovra di bilancio. Per come la vedo io, potete chiamarmi come credete, anche Giorgia».

Altro caposaldo della retorica anti-Meloni: l’intenzione presunta della premier di relegare le donne ai luoghi di cura e le madri all’interno della famiglia. Anche in questo caso il linguaggio è non solo vetusto ma offensive verso le italiane. Dove stanno oggi le donne disposte a farsi relegare alla funzione di crocerossine o di spose e madri esemplari? Non esistono, né tantomeno costituiscono la platea di riferimento di una leader come Giorgia Meloni che si dichiara orgogliosamente madre e si mostra preoccupata (come tutti i politici consapevoli) di un calo demografico che appare inarrestabile. Quanto a relegare le donne ai fornelli, alcuni dati Istat parlano chiaro, a cominciare dalla crescita dell’occupazione femminile nel 2023 e nel 2024.

E veniamo all’orgoglio della maternità. Qui non c’entra il classico mammismo all’italiana. Ma c’entra un fattore culturale importantissimo: il considerare la maternità un potere femminile, un arricchimento e non un ostacolo alla realizzazione di sé. Ovvio che una sinistra concentrata sulla gestazione per altri, sui bagni gender fluid, sulla schwa che annulla il genere femminile, sul diritto all’aborto, sia indotta a vedere nel discorso politico pubblico sulla maternità una minaccia quando non addirittura un fattore discriminatorio verso chi non è madre. In questo però Meloni si è fatta modello, portandosi la figlia Ginevra in due viaggi istituzionali e provocando le solite lagne dei risentiti permanenti. Cui lei ha replicato andando al sodo, come suo solito: «Se io, che sono presidente del Consiglio, riesco a dimostrare che il mio incarico è compatibile con la maternità, allora non ci saranno più scuse per quelli che usano la maternità come pretesto per non far avanzare le donne sul posto di lavoro».

 

 

 

CONCEZIONI DI “FAMIGLIA”
Ma c’è chi si spinge anche oltre. E lo ha fatto Chiara Valerio, inserendo la maternità in quel “fascismo del sangue” che è per lei da combattere assolutamente. «Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni. Il sangue che consente di mantenere i privilegi. Il privilegio che è l’opposto e il contrario del diritto». Concetti affastellati sulla scia dell’amica e scrittrice Michela Murgia e del suo concetto di famiglia non genealogica ma improvvisata sulla base di scelte individuali. Inutilmente una comunista di vecchia data come Luciana Castellina ha ricordato alle neofemministe che le battaglie di genere sono superate, che la sinistra ha saputo solo disquisire sulle quote e poi è arrivata Giorgia e le ha fregate tutte. E senza le moine femminili che già Simone De Beauvoir riteneva concessioni al maschio predatore. E persino rifiutando i giocattoli “sessisti”. Infatti in una intervista di molti anni fa, quando era solo la dirigente giovanile di An, Meloni raccontò che da bambina le avevano regalato per un suo compleanno una scintillante casa di Barbie. «Non l’ho mai aperta, non ci ho mai giocato. Non mi interessava».

 

 

 

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