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L'era degli adulti-bimbi: al rischio di vivere preferiscono giocare tra parchi e bambolotti

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Ginevra Leganza
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In principio fu la società liquida, vennero poi il genere fluido, il sesso incerto e infine – eccoci oggi – l’età variabile. Gli inglesi, sull’Economist, la chiamano «kidadulting». Sintesi tra kid e adult per dire della propensione, degli adulti contemporanei, a tutto quanto abbia a che fare col fanciullino. Sicché, sul settimanale, si racconta dei musei interattivi come Dopamine Land, con sede a Londra e Madrid, e cioè dei musei che titillano con esperienze ludiche il “bambino interiore”. Si dice poi del Museo del gelato di New York, quello con vasche ricolme di dolci finti. Di Amsterdam e del parco Wondr che punta invece su coriandoli, castelli gonfiabili, marshmallow, e su un biglietto da visita che neanche Lucignolo e il Paese dei balocchi («Prenditi una pausa dall’età adulta»). Si dice di queste e altre realtà assai simili a quella mostra romana al MAXXI, della scorsa primavera, dal titolo “Ambienti”. Dove, tra scivoli e gonfiabili, c’erano giochi di ruolo con adesivi di animaletti: «sei un gatto, un coniglio, un elefante o un gufo?»... Mancava solo il collodiano ciuchino.

TUTTO UN DISNEYLAND
Ed ecco. A leggere l’Economist – e a guardarsi intorno – il mondo dell’arte parrebbe quindi costellato di exclave di Disneyland Paris. Di luna park per grandi che si sentono piccoli, e che gli inglesi – d’idioma pragmatico e altamente instagrammabile – chiamano kidadult. Parola che sa di hashtag ma che forse, diciamo forse, non esprime solo un cancelletto o un concetto effimero. Già qualche anno fa il filosofo del King’s College, Simon May, pubblicò un libro – Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili – che metteva a fuoco l’estetica del “cute”. E cioè della passione, anche e soprattutto adulta, per le Hello Kitty e per i Pokémom (buffi ma aggressivi); per i gattini su internet e poi ancora – prima che la nemesi li silurasse – per la coppia Fedez-Ferragni e cioè per i cappellini, i tatuaggini, le borsette, i cagnetti e non ultimo i pupi. Ostentati sui social come piccoli Buddha. Ma la questione, dicevamo, è seria.

Degna d’un asilo nido non meno che d’un seminario di filosofia. Il criminologo Keith Hayward imputa ancora il kidadulting alla cultura occidentale cosiddetta pop. Parte in causa del “drammatico calo” – scrive nel suo libro Infantilised – «di trentenni che hanno lasciato casa per essere finanziariamente indipendenti» e che passano dai pupazzi dell’infanzia ai pupazzoni dell’età adulta. Dalle Barbie per bimbe piccole alle Margot Robbie per bimbe grandi. Ovvero dai cartoni Disney ai film con Batman e Spiderman per i bimbi maschi.

 



CHE C’È DI MALE?
E vabbè, che c’è di male, potremmo domandarci, retoricamente, se non fossimo i criticoni che siamo. Che male c’è se a trent’anni l’uomo occidentale non è uomo bensì bambino? Niente, in effetti. Nulla di male. Ma ecco che proprio qui è l’incaglio, il problema, l’oggetto della questione. Giacché quello dell’infanzia, oggi, non è un fatto ma un culto. Non un fatto (bambini veri, nei fatti, ce ne son pochi) epperò un’ossessione che, scrive ancora May, «sta prendendo il posto dell’amore romantico come archetipo dell’amore che bisogna avere, il tipo di amore senza il quale si pensa che la vita non sia vissuta a pieno o al massimo del suo rigoglio». In altre parole, oggi l’adulto non fa bambini ma si trasforma, in bambino, perché sa che il cucciolo d’uomo non è criticabile. Sa che nell’infante non c’è niente di male e che, anzi, l’infanzia è la sola soglia al di là del bene e del male. Sa che il bambino, in quanto carino, è né brutto né bello. Che precede perciò la critica, la scelta, la fatica dell’amore romantico e del giudizio morale. Tutte cose che un certo tipo di trentenne, oggi, non saprebbe sopportare. Ed eccolo quindi il kidadult: bimbo che al vernissage non ci va per far la corte alle ragazze ma le bolle con il sapone. Perché insomma, che c’è di male? Se non altro, col sapone, si risparmia l’accusa di catcalling.

 

 

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