Vittorio Feltri dopo l'assoluzione: "Amo i meridionali. Ma con questa giustizia..."
«Io credo che i meridionali siano inferiori», sentenziò l’orobico Vittorio Feltri nell’aprile 2020 in televisione, rispondendo alle domande di Mario Giordano. Lo disse alla Feltri, senza filtri, senza giri di parole, senza precisazioni e senza sfumature. Scoppiò il finimondo, un terremoto mediatico e sociale. Tantissimi meridionali si sentirono offesi, discriminati, disprezzati, vituperati. Sulle scrivanie di polizia e carabinieri si accatastarono pile di denunce contro lo spietato diretùr bergamasco, padano purissimo, con i piedi ben piantati nella sua Ponteranica, il cuore sulla curva della Dea e lo sguardo che non va oltre l’orizzonte del Po.
Il fondatore di Libero divenne l’uomo più odiato da Roma in giù, contro di lui sgorgarono fiumi impetuosi di veleno che neanche un miracolo di San Gennaro e Santa Rosalia insieme avrebbe potuto arginare. Piovvero insulti e querele, boicottaggi e minacce e poi partirono i procedimenti penali. Ieri è arrivata la prima sentenza alla denuncia per istigazione all’odio razziale dell’ex senatore del Movimento 5 Stelle, Saverio De Bonis. Il direttore editoriale de Il Giornale è stato assolto dal giudice per l’udienza preliminare di Roma, Claudio Carini, perché «il fatto non è previsto dalla legge come reato», esattamente come aveva chiesto il suo avvocato Valentina Ramella.
Direttore, ti aspettavi l’assoluzione?
«Sapevo di non aver detto nulla di sbagliato, ma con questa giustizia non si sa mai...».
Contento?
«Direi commosso, proprio perché l’esito di questo procedimento non era scontato, nonostante l’impegno della bravissima Valentina Ramella».
L’accusa era pesante:
«Propaganda di idee fondate sulla superiorità delle popolazioni dell’Italia settentrionale rispetto a quelle dell’Italia meridionale e, dunque, sull’inferiorità delle popolazioni dell’Italia meridionale». «A me viene da ridere».
Perché?
«Chi mi conosce sa del mio legame con il Meridione».
Hai raccontato più volte che da bambino trascorrevi le estati a Guardialfiera, un paese dell’entroterra molisano.
«Ho la cittadinanza onoraria di Guardialfiera».
Che ricordi hai?
«Conservo il ricordo di mesi bellissimi, della gente, della loro generosità, della simpatia, dei luoghi che erano ancora incontaminati e per me pieni di fascino. Ho in mente quando giocavo in strada e mi ospitavano nelle case con le porte d’ingresso al piano terra per offrimi i biscotti o solo un bicchiere d’acqua».
Ci sei più tornato?
«Sì, e sono stato accolto dalla banda. Se ci penso mi emoziono ancora. Con una donazione ho restituito agli abitanti di Guardialfiera la loro campana, la più vecchia del mondo, che si era irrimediabilmente rovinata. Come gli sia venuto in mente di darmi dell’antimeridionale, non lo so».
Direttore, riconosci però che quella frase era infelice?
«Intendevo dire, e credevo fosse chiaro, che al Sud l’organizzazione della società è inferiore. Mi riferivo al fattore economico svantaggioso, all’organizzazione della società, non certo alle qualità morali del popolo che, anzi, ho sempre elogiato. Anche se la mafia e la camorra si sono diffuse perché una parte della popolazione lo ha reso possibile».
Quindi, secondo te, c’è stato solo un problema di interpretazione?
«Certo, lo ripeto ormai da anni. Darmi dell’antimeridionalista significa non conoscere la mia storia».
Certo è che le tue redazioni sono sempre state piene di meridionali, inclusa la sottoscritta.
«Quando assumo un giornalista mica guardo la carta d’identità. Diciamo che il discrimine non è l’anagrafe».
Giornalisti a parte?
«Il mio migliore amico, Paolo Isotta, era napoletano e con lui ho trascorso giorni indimenticabili nella sua città. Durante il processo Tortora ho vissuto a Napoli e sono stato benissimo. Avevo un po’ di soldi in tasca e vivevo da re, ma mi guardavo attorno e vedevo una difficoltà strisciante soprattutto per le persone meno abbienti».
Quando si è insediato il governo Conte hai titolato “Comandano i terroni” e anche questa frase fece arrabbiare parecchio i meridionali.
«L’ottanta per cento del governo Conte era composto da meridionali, ho detto la verità».
Un titolo fattuale...
«Io mica mi offendo se mi chiamano polentone... Anzi, me ne frego. Non ci trovo nulla di ingiurioso nel dire “terrone”».
Ma vivresti mai al Sud?
«Sono di Bergamo, ho le mie abitudini. Mi mancherebbe la polenta. Ma ogni volta che sono andato in Meridione mi sono trovato a mio agio. Amo la cucina napoletana e penso che le canzoni partenopee siano dei capolavori».
Spesso, in redazione ti ho anche sentito parlare bene- il dialetto napoletano. Chi te l’ha insegnato?
«L’ho imparato da bambino perché da Guardialfiera andavo in gita a Napoli, e poi mi hanno aiutato le canzoni e i tanti amici partenopei».
Ripeteresti quella frase così come l’hai detta o cercheresti di chiarire meglio il concetto?
«Sapendo il putiferio che è scoppiato dopo quell’affermazione, non la ripeterei. Eviterei».
Direttore, qual è stata la tua strategia difensiva?
«Dovresti chiederla al mio avvocato». Ps. In una memoria di dodici pagine Ramella ha spiegato che «la semplice diffusione di un’opinione non può di per sé considerarsi propaganda». Alla frase di Vittorio Feltri non sono seguite azioni concrete e specifiche. Inoltre- ha sostenuto l’avvocato - l’articolo 604-bis parla chiaramente di discriminazione razziale, nazionale, etnica e religiosa «e i meridionali non rientrano in nessuna di queste categorie».