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Fontana di Trevi, chiuderla è come chiudere Roma

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Caro Direttore, l’idea di chiudere la Fontana di Trevi inserendo un ticket a tempo, gratuito (per i romani) e a due euro (per i non romani), può far sorridere come una boutade di fine estate. Anche perché ricorda in qualche modo il celebre episodio di Tototruffa 62, in cui il geniale Totò si presenta come Antonio Trevi, proprietario dell’omonima fontana, che riesce a convincere l’oriundo Decio Cavallo a comprarsela. “Un buon bisinis”.

L’ilarità però dura poco perché il progetto della chiusura dello spazio della Fontana, che sarebbe ammirabile a distanza, tradisce aspetti inquietanti in generale e in particolare perché espressi da una giunta di sinistra, che dovrebbe essere animata da valori e pratiche di segno opposto, almeno in linea di principio. Due di essi forse meritano attenzione, uno più giocoso e uno meno. Il primo è che lo status di cittadino romano è tanto discriminante quanto difficile da definire, almeno dal 212 dopo Cristo quando l’imperatore Caracalla promulga la constitutio antoniniana che concedeva la cittadinanza romana a tutti, o quasi, gli abitanti dell’Impero. Tra i pochi esclusi vi erano i cosiddetti dediticii, i non Romani formalmente privi di ogni altra appartenenza cittadina. Senza andare così lontano ma restando all’oggi, un residente ai Castelli o di Palestrina sarebbe romano o non romano? E come decidere? Controllando la carta d’identità?

Ma la cosa che fa meno sorridere è che la chiusura del patrimonio pubblico corrisponde sempre e comunque alla sua privazione, ovvero alla fine dell’unica, vera esperienza democratica sancita dalla Costituzione, all’articolo 9. Esperienza che è in fondo rendere tutti – quindi romani e non romani – più liberi, più uguali e soprattutto più umani. A questo alla fine serve la cultura, e le opere d’arte, come sapeva bene Papa Clemente XII Corsini che riprese l’idea di una fontana monumentale che potesse rifornire la città di una maggiore quantità di acqua potabile e, a questo scopo, bandì nel 1730 un concorso tra i migliori artisti dell'epoca: vinse l’architetto (romano) Nicola Salvi, un’opera per tutto il popolo.

Invece di ideare una gestione che ne permetta il massimo utilizzo nelle condizioni date, oggi particolarmente complesse per quello che viene definito overtourism, la chiusura rappresenta non solo una resa alla sfida più importante di una città come Roma, ma ancor più la cronaca della morte annunciata dell’idea di comunità, di saper pensare e agire come un soggetto veramente pubblico, ovvero democratico. Del resto, l’idea è tutt’altro che nuova. Sono almeno trent’anni che la politica di gestione del patrimonio culturale italiano gira sull’opposizione pubblico-privato, ovvero gratuito e a pagamento, dove naturalmente è sempre il primo a soccombere. Almeno dall’epoca di Gianni de Michelis e dei suoi “giacimenti culturali” – che consideravano il patrimonio artistico il vero petrolio italiano, da “individuare”, “estrarre”, “raffinare” “stoccare”, “sfruttare” – un concetto, quello dello sfruttamento, che perfino Giorgio Napolitano, il primo presidente comunista della Repubblica fece proprio, nel 2012, aderendo al Manifesto della Cultura del Sole 24 Ore. 

Una posizione, questa di Napolitano, opposta a quella di un altro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, convinto invece che «la cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni». La data dirimente per l’inizio della privazione del patrimonio è il 14 novembre 1992, quando l’allora ministro della cultura Alberto Ronchey fece entrare, per la prima volta, il privato nella gestione del patrimonio pubblico for profit. Una scelta che anticipava quella di poche settimane dopo del presidente del consiglio, Giuliano Amato, che propose un enorme piano di privatizzazioni, mai visto in Italia, come risposta allo shock finanziario che aveva condotto il Paese sull’orlo dell’abisso.

È da allora che il patrimonio culturale diventa una forma di economia, opposta però sia a quella teorizzata dal pensiero socialista che liberale: un’economia parassitaria, un’economia di rendita, che l’Economist aveva chiamato «maledizione delle risorse» e che crea sempre e ovunque diseguaglianza. Quindi vantaggio dei ricchi sui poveri, dei privilegiati su chi ha meno possibilità. Una scelta classista, oltre che di una incapacità su cui chi amministra la città dovrebbe riflettere.
E magari prendere atto.

di Walter Mariotti
Domus Editorial Director

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