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Rovigo, "Ha i figli delinquenti, famiglia non integrata": negata la cittadinanza

Luca Puccini
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Una richiesta per ottenere la cittadinanza italiana, avanzata nel 2015 e rigettata dal ministero dell’Interno nel 2018. E poi un ricorso, al tar, ossia al tribunale amministrativo regionale, del Lazio che finisce, adesso, nel 2024, con una sentenza che dà ragione al Viminale: quella famiglia non s’è mai integrata, dicono i giudici, perché i figli son stati pizzicati a delinquere, non una ma diverse volte, e allora no, alla loro mamma, che da quasi un decennio vorrebbe il passaporto bordeaux della repubblica italiana, ‘sto benedetto riconoscimento non lo si può dare. Rovigo, Veneto. Vediamo di essere chiari fin dall’inizio: di cavilli, non ne abbiamo molti. Non conosciamo nemmeno il nome dei protagonisti o il loro effettivo Paese d’origine. Ma il succo sì, quello lo sappiamo eccome. Ed è che, come scrive l’edizione di ieri del quotidiano locale Il Gazzettino, forse le colpe dei padri non ricadono sui discendenti, però il contrario succede (parentesi: succede spesso) e ha persino conseguenze in tema di immigrazione.

I REATI

Passo indietro. Prima dell’inizio di questa gincana burocratico-amministrativa. Due fratelli, uno più grande (maggiorenne), uno più piccolo (minorenne). Due delinquentelli di strada, con una sfilza di segnalazioni e condanne sulla fedina penale, specie per il primo, che di certo non descrivono cittadini modello. C’è di peggio, per carità: ci sono i terroristi e gli assassini e i mafiosi e non è questo il caso, però non è nemmeno quello di due stinchi di santo. Per il maggiore: condanna penale per guida in stato di ebrezza bollata dal tribunale di Rovigo (2009); patteggiamento per detenzione illecita di stupefacenti (2010); patteggiamento per cessione di droga (sempre 2010); condanna in appello per detenzione di sostanze, ricettazione ed estorsione, reato, quest’ultimo, commesso in concorso col fratellino (2012); sospensione per un processo per messa alla prova con la contestazione dell’articolo 674 del codice penale, cioè “getto pericoloso di cose” (2016). Finirebbe tutto lì, se la loro madre non volesse diventare italiana anche per l’Anagrafe, perché i precedenti con la giustizia dei suoi pargoli «rappresentano un chiaro indice sintomatico di non compiuta integrazione».

 

 

 

Ci si gioca tutto sul filo del diritto. Gli avvocati, sempre loro, da una parte quelli della donna, dall’altra quelli del ministero. Gli uni che fanno notare come questa mamma straniera, in effetti, non si sia mai resa colpevole di alcunché, mai complice, manco una multa per divieto di sosta per cui «non può essere considerata inaffidabile e non integrata nella comunità nazionale per effetto dei pregiudizi penali dei suoi figli». Che poi sarebbe la logica conseguenza di quel principio che si impara il secondo giorno di Giurisprudenza: la responsabilità penale è personale.

SITUAZIONE “CRITICA”

Gli altri, i legali della controparte, che sostengono come sia da considerare, semmai, la «situazione “critica” nell’ambito del contesto famigliare di riferimento», talmente problematica che può negare il suo «definitivo inserimento» nella comunità che, di fatto, la ospita. Lo scrivono chiaramente i magistrati del tar «l’acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione che presuppone un’amplissima discrezionalità in capo all’amministrazione». La parola chiave è “discrezionalità”(la stessa che vale, cambiando seminato, quando si deve rinnovare il porto d’armi): «La cittadinanza può essere concessa» se il diritto di chi la richiede coincide «con l’interesse pubblico a inserirlo a pieno titolo nella comunità» nella quale si è trapiantato. Il tar (la sua non è l’ultima parola perché la donna ha ancora una carta da giocarsi, quella del Consiglio di stato) rileva quindi che «la stabilità parentale e affettiva potrebbe indurla ad agevolare, anche solo per ragioni affettive, comportamenti ritenuti in contrasto con l’ordinamento giuridico» e il fatto che il primogenito della signora abbia «mantenuto una condotta di vita scarsamente incline al rispetto delle regole» le costa, in pratica, la cittadinanza la quale tra l’altro comporta una serie di benefici come «l’impossibilitò di espellere i parenti entro il secondo grado».

Attenzione, il diniego della cittadinanza (ovviamente) non è un decreto di espulsione. Tutto questo non significa che mamma e figli se ne dovranno andare. Tuttavia, e basta chiedere a chi di queste materie se ne occupa per lavoro, casi simili non sono faldoni isolati, dato che al momento di rilascio della cittadinanza si procede con una valutazione generale sul nucleo famigliare e, alle volte, basta una denuncia per stracciare ogni documento.

 

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