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Yara Gambirasio, tv e polemiche: tutti i clamorosi errori nell'indagine

Alessandro dell'Orto
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Rivivere la tragedia di Yara Gambirasio così - a distanza di 14 anni e rientrandoci a fondo con le emozioni intense provocate dalle immagini d’archivio, dalle interviste inedite e dalle testimonianze - fa effetto. Uno strano effetto. È la potenza della tv e delle docuserie, che approfondiscono, rielaborano, spettacolarizzano e a volte cercano di condizionarti. È proprio quello che succede con Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, disponibile su Netflix dallo scorso martedì, che tanto sta appassionando gli spettatori e che- ovviamente, per catturare l’attenzione e valorizzare un prodotto che cinematograficamente è di altissimo livello e impatto - propone una versione smaccatamente innocentista nei confronti di Massimo Bossetti, 53 anni, arrestato il 16 giugno 2014 e condannato definitivamente all’ergastolo il 12 ottobre 2018 dopo tre gradi di processo.

Già, il titolo è sulla vittima, ma alla fine il protagonista è l’assassino e vengono sottolineati soprattutto i dubbi, le polemiche, le questioni tecniche che fanno facilmente presa su chi, ai tempi, ha seguito il caso distrattamente e che ora, a freddo, è più manipolabile. D’altronde, la caratteristica principale di questo caso di cronaca nera - uno dei più drammatici, ingarbugliati e per certi versi spettacolari degli ultimi decenni - è sempre stata il caos. La superficialità. E alla fine, al di là dell’idea che ognuno di noi si è fatto, che sia colpevolista o innocentista, l’unica certezza è che, tra colpi di scena da film, scivoloni e sfortune, le lunghe indagini coordinate dalla pm Letizia Ruggeri (ora indagata per frode processuale e presunto depistaggio: l’udienza per decidere se archiviare la posizione o procedere con il rinvio a giudizio è in programma mercoledì prossimo a Venezia), non sono mai state inattaccabili. Anzi.

 

 

 

LE TELECAMERE

Quando Yara è sparita - era la sera del 26 novembre 2010- l’Italia era ancora scossa dal caso di Sarah Scazzi, la ragazzina (aveva 15 anni) scomparsa e ritrovata morta in un pozzo ad Avetrana il 6 ottobre, e la pressione mediatica è stata subito forte. Nelle primissime ore le ricerche degli investigatori si sono concentrate soprattutto nella zona attorno alla palestra di Brembate, dove la 13enne bergamasca era stata vista l’ultima volta. Ma fin da subito si è capito che l’indagine partiva con poca fortuna: dopo aver monitorato le vie percorse da Yara prima di svanire nel nulla e aver recuperato i filmati dei circuiti di videosorveglianza della zona, le forze dell’ordine si sono accorte che le telecamere poste all’esterno dell’impianto sportivo, quelle che avrebbero sicuramente ripreso il killer in azione, erano rotte. Inutilizzabili. Il motivo? Un fulmine durante un temporale estivo, quattro mesi prima, le aveva messe fuori uso e da allora non erano più state sistemate. La settimana successiva, dopo le prime confuse segnalazioni (tra cui quella del 19enne super testimone Enrico Tironi, poi considerato poco attendibile) e le ricerche con i cani molecolari (nessuno lo ricorda, ma il primo era andato effettivamente verso il cantiere di Mapello in cui stavano costruendo un centro commerciale, mentre il secondo si era diretto dalla parte opposta, sulla statale che porta a Bergamo, ed era stato portato al cantiere su un camioncino) c’è stato il primo grande, e grave, abbaglio.

Quello di Fikri. Il 4 dicembre, otto giorni dopo la scomparsa di Yara, i carabinieri hanno raggiunto Mohamed Fikri, piastrellista marocchino che lavorava proprio al cantiere (quello dei cani), sul traghetto salpato da Genova per Tangeri. E lo hanno arrestato (per poi essere rilasciato dopo due giorni) con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere: una telefonata intercettata e tradotta male («Che Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io» che poi, dopo altre 15 traduzioni, diventerà: «Facilitami in una partenza per il Marocco, mio Dio, mio Dio») ha fatto pensare gli investigatori che stesse scappando. Il risultato, oltre alla figuraccia, è stato che il fermo di Fikri (il caso in quel momento sembrava risolto) inevitabilmente ha rallentato il resto delle indagini proprio nei giorni più delicati per la scoperta di dettagli fondamentali. Non solo.

Sempre legato a Fikri, tre mesi dopo, è stato commesso un altro errore che avrebbe potuto avere pesanti conseguenze: una volta ritrovato il corpo di Yara (26 febbraio 2011) in un campo a Chignolo d’Isola, nessuno ha notificato al marocchino - già scagionato, ma in quel momento unica persona ancora formalmente indagata- alcun avviso a comparire all’autopsia tramite un consulente di parte. Tradotto, se l’operaio fosse stato in qualche modo coinvolto ancora nel caso, i suoi legali avrebbero potuto invalidare ogni risultato dell’esame autoptico. Quei primi mesi di indagini sono stati caratterizzata da tanta confusione, troppa. E quelle che erano le impressioni iniziali di chi seguiva la vicenda da vicino (cioè di una difficile convivenza e collaborazione tra carabinieri e polizia), qualche tempo dopo sono diventate quasi certezze, quando il 16 marzo 2011 a l’Eco di Bergamo è arrivata una lettera (anonima) di due uomini appartenenti alle forze dell’ordine che lavoravano sul caso. «Potremo sbagliarci, ma negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia».

E ancora. «La questione è annosa e di vecchia data, ma si ripropone in maniera antipatica e puntuale, eppure non si riesce a comprendere quando questo Paese capirà (ed ammetterà) quanto sia deleterio il dualismo tra due forze dell’ordine che invece di condividere mezzi, uomini e risorse, finiscono per nascondere alla controparte informazioni ed indizi, con l’unico risultato di non raggiungere mai il traguardo consolandosi che nemmeno i cugini (di un versante o dell’altro) sono riusciti a raggiungerlo. Semplicemente avvilente! Il caso della scomparsa di Yara prima e della scoperta del suo povero corpo deturpato dopo, ha di nuovo portato alla ribalta il problema: il palese conflitto di interessi e attribuzioni tra i vertici dell’Arma dei Carabinieri e della polizia di Stato, che determina, con puntualità ossessiva, una chiara, evidente dispersione di forze e di energie, a discapito della scoperta della verità d’indagine. Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere». Accuse pesanti, arrivate in seguito al ritrovamento di Yara e a una nuova polemica: dopo giorni di pellegrinaggi e libero accesso a giornalisti e gente comune, il campo dove è stato rinvenuto il corpo della 13enne è stato messo di nuovo sotto sequestro per l’effettuazione di rilievi scientifici. Sì, con l’altissima possibilità che tutta la zona fosse ormai stata “inquinata”.

LE PROVETTE SCAMBIATE

Il resto della vicenda, poi, è quasi completamente legata al Dna ritrovato sugli slip di Yara e alle ricerche per identificare “Ignoto 1”, tra scoperte di tradimenti, figli illegittimi e bugie. Anche in questo caso, però, con sviste macroscopiche. Come quando, due anni prima dell’arresto di Bossetti, Ester Arzuffi, sua madre naturale, è stata sottoposta all’esame del Dna con altre 531 donne della valle Seriana che avrebbero potuto aver avuto rapporti con Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gromo morto nel 1999 e considerato il padre dell’assassino. Il primo test eseguito dalla mamma di Bossetti, però, non aveva avuto alcun riscontro. Più avanti è stato scoperto il perché: per un probabile scambio di provette il campione della donna così come gli altri - era stato erroneamente confrontato con il Dna di Yara anziché con quello di “Ignoto 1” trovato addosso alla ginnasta. Quella che ha portato a Massimo Bossetti è stata una lunga indagine complicata e ricca di errori (a proposito, non va dimenticato il filmato del furgone che passa 13 volte davanti alla palestra, ma che i carabinieri hanno ammesso di aver confezionato apposta per la stampa), che poi, per forza, ha lasciato spazio a caos e polemiche (la famosa questione del Dna mitocondriale e poi della conservazione) durante il processo. Che però alla fine, in tutti e tre i gradi del giudizio, ha condannato il muratore di Mapello all’ergastolo

 

 

 

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