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Savoia, il 25 luglio del'43 arrivò l'ultimo e fatale errore della dinastia

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Francesco Carella
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Se la politica seguita da Vittorio Emanuele III nei confronti del fascismo altro non fu che una lunga catena di errori e complicità (dalla mancata firma sullo stato di assedio di Roma nell’ottobre ’22 al colpevole ed ambiguo silenzio nei terribili giorni del delitto Matteotti, dall’avallo delle successive leggi fascistissime fino alla vergogna del 1938 quando accettò le leggi razziali) il netto rifiuto deciso, all’indomani del 25 luglio di 81anni fa - quando le piazze erano giubilanti per la destituzione e il successivo arresto del duce - nel coinvolgere gli esponenti dell’antifascismo fu l’ultimo fatale errore dei Savoia.

Ma facciamo un passo indietro. Alla notte del 24-25 luglio si giunse in ritardo. E quel che ne seguì rivelò che l’intero establishment, sia sotto il profilo politico che strategico, non aveva la benché minima intelligenza nell’affrontare una tragedia immane come quella che il Paese stava vivendo. Per inquadrare gli accadimenti che portarono al voto in Gran Consiglio sull’ordine del giorno presentato da Dino Grandi occorre ricordare che l’Italia usciva da una lunga e pesante serie di sconfitte militari. Smacchi iniziati sul campo fin dai primi mesi dell’entrata in guerra. Dalla Penisola Balcanica alla Cirenaica, dal fronte russo all’Africa Orientale si è trattato di un susseguirsi di umiliazioni per il nostro esercito. In ragione di ciò, si appalesano le prime difficoltà nel tenere in piedi il cosiddetto “compromesso autoritario” che nel Ventennio vide protagonisti la monarchia, la borghesia economica e finanziaria, l’alta burocrazia statale e la stessa Chiesa.

 

 

 

I motivi per cui tale compromesso cede sono evidenti: sempre più consapevoli della fine imminente del regime i vari attori di quell’accordo si convincono che sia possibile trovare una strada che li metta in salvo al momento del crollo del regime. Del resto, tranne Grandi, tutti coloro che parteciparono al Gran Consiglio del 24-25 luglio credevano ancora che fosse possibile puntare a un fascismo senza il duce.
Infatti, il re, dopo aver fatto arrestare Mussolini, non si accontenta di attribuire l’incarico per formare il nuovo governo al Maresciallo Badoglio (figura già ampiamente compromessa con il regime ) ma rifiuta anche la più cauta apertura verso gli oppositori.

È ormai documentato che quando Badoglio propone d’inserire nel nuovo Ministero una personalità democratica, il sovrano liquida sprezzantemente l’idea definendo gli antifascisti dei “revenants”. A tal proposito, Renzo De Felice scrive che “si è trattato di un passo falso che la monarchia compie lungo la strada di una possibile, ancorché difficile, rilegittimazione democratica in vista del futuro assetto istituzionale da dare al Paese nel Dopoguerra”. Seguono settimane in cui Vittorio Emanuele III esprime la sua ambiguità al massimo grado. Non viene compiuto alcun passo per favorire la riorganizzazione dei partiti antifascisti. Viceversa, si frappongono non pochi ostacoli affinché tutto questo risulti difficile. “Il fossato fra la monarchia e le forze politiche candidate a incarnare la causa del riscatto della nazione- scrive lo storico Roberto Chiarini in “Le origini dell’Italia repubblicana” - invece di restringersi si allarga ulteriormente, per divenire presto incolmabile. Tale divaricazione non è solo di carattere politico, ma attiene soprattutto alla sfera della legittimità istituzionale al punto da produrre una progressiva e destabilizzante erosione del senso dello Stato e della nazione”.

Quarantacinque giorni dopo, la sera dell’8 settembre, il Maresciallo Badoglio annuncia a sorpresa alla radio che è stato firmato l’armistizio (la firma fu apposta cinque giorni prima a Cassibile, una piccola località siciliana, fra il generale Giuseppe Castellano e il comandante delle forze Alleate in Europa Dwight Eisenhower). Di lì a poche ore Vittorio Emanuele III, esponenti della Real Casa e lo stesso Badoglio fuggono da Roma, lasciando l’intero esercito italiano allo sbando e abbandonando gli italiani nelle mani dei tedeschi, i quali nel frattempo occupano gran parte del nostro Paese. A quel punto, “l’erosione del senso dello Stato” si trasforma in “morte della Patria”.

 

 

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