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Torino, genitori rom maltrattavano le figlie? Assolti: "In quei campi è normale"

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Simona Pletto
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I rom possono picchiare i bambini, perché nell’ambiente in cui vivono, e in particolare nei campi rom, è normale. È in sostanza quanto ha sentenziato la quarta Sezione penale della Corte d’Appello di Torino. Un verdetto che inevitabilmente suscita interrogativi, perché lascia intendere che ci possano essere nel nostro Paese aree in cui la legge non è la stessa che per tutti gli altri. In soldoni: chi picchia un figlio o una figlia minore in un contesto familiare e sociale disagiato come quello di un campo rom, può scampare l’accusa di maltrattamento.

Diversa sarà la pena decisa per un qualsiasi genitore che invece mena i figli in un contesto diciamo “normale”. A finire sul banco degli imputati era stata una coppia di cittadinanza romena e residente a Torino, lui di 54 anni e lei di 44, accusata per l’appunto di maltrattamenti nei confronti delle tre figlie, tutte minori di dieci anni. In primo grado i genitori erano stati condannati a due anni e sei mesi di carcere. Ma la Corte d’Appello, presieduta da Marco Gnocchi (consigliere relatore Marco Lombardo) ha ribaltato tutto e li ha assolti perché il fatto non costituisce reato. Secondo la motivazione della sentenza, gli imputati consideravano le percosse come unico strumento disponibile per garantire ordine e disciplina in seno alla famiglia.

 

 

 

Quindi, anche se i figli venivano spesso colpiti con schiaffi e calci o sculacciate, a volte utilizzando anche oggetti, secondo i giudici in quel contesto in cui vivevano, di povertà, trascuratezza e con evidente mancanza di igiene, la cosa era normale. E dunque madre e padre esenti da ogni possibile contestazione di reato.
Anche il fatto che gli stessi genitori si picchiassero spesso davanti ai figli è passato come un fatto “normale” in quel contesto.

La Corte d’Appello ha inoltre ritenuto che le “peculiari condizioni del contesto familiare” facciano insorgere notevoli dubbi sulla coscienza e la volontà di sottoporre le figlie a qualsivoglia forma di maltrattamento rilevante. In particolare, la sentenza ha considerato il fatto che le bambine vivevano, appunto, in un campo rom, dove la violenza è un connotato accettato come un dato di fatto. Nelle motivazioni si evince anche che la madre, a sua volta spesso percossa dal marito, era la figura di riferimento principale per le figlie, e che le difficoltà dovute all’elevato numero di figli in tenera età e alla relativa esuberanza avevano contribuito a creare – e in qualche modo sdoganare quel clima di violenza. Si è inoltre sottolineato che gli imputati avevano dimostrato attenzioni e manifestazioni di affetto verso le figlie, il che non appare compatibile con la consapevolezza e l’intenzione di sottoporre le proprie figlie a un regime di vessazione e di sofferenza morale. Insomma, bastone e carota. Nel giudizio finale, si è tenuto anche conto della deposizione di un neuropsichiatra infantile, che infatti ha scritto: «Il clima di violenza mi sembrava accettato come un dato di fatto, ma sono bambini che vivevano in un campo rom, dove la violenza è un connotato».

 

 

 

È stato accolto dunque l’appello dei difensori, gli avvocati Stefania Lombardo e Roberto Saraniti. Lo scenario era stato soppesato anche dal tribunale: «Ancorché non possa attribuirsi efficacia scriminante al cosiddetto modello culturale- nel caso di specie ai peculiari aspetti della cultura rom caratterizzati da un frequente ricorso alla violenza quale metodo educativo e da una scarsa attenzione all’igiene- è pur vero che non può non attribuirsi valore a tale condizionamento culturale sotto il profilo dell’intensità del dolo, che deve certamente ritenersi sminuita».

Il piatto della bilancia della giustizia pare comunque segnare due pesi e due misure. Basta pensare che a Roma una donna di 40 anni tempo fa è stata condannata a un anno e sette mesi di reclusione con l’accusa di maltrattamenti in famiglia per aver dato uno schiaffo alla figlia di 12 anni dopo aver sbirciato su suo cellulare e scoperto che la ragazzina aveva inviato foto sexy a un ragazzo più grande di lei. La donna, controllando il profilo Instagram della figlia, aveva scoperto tutto. Da qui la reazione: l’ha colpita sulla faccia, provocandole anche un graffio. Al vaglio dei giudici, era finita anche la sua successiva ramanzina da parte della madre per il mancato aiuto nelle faccende domestiche. Ma per i giudici che hanno assolto i genitori rom di Torino, questa è tutta un’altra storia.

 

 

 

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