Mario Cerciello Rega, ridotte le pene dei killer del carabiniere
Camicia a quadretti per uno, bianca per l’altro. Capelli corti, cortissimi. E sguardo serio, sempre avanti, alla sbarra. È il giorno della corte d’assise d’appello per Lee Elder Finnegan e Gabriele Natale Hjorth, i due ragazzi, i due studenti americani, accusati dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega avvenuto, a Roma, quasi cinque anni fa, il 26 luglio del 2019. Ed è il giorno, ieri, in cui la magistratura capitolina sforbicia, di nuovo, sulle condanne: quindici anni e due mesi di carcere al primo, undici anni e quattro mesi al secondo. Dopo una sentenza, in primo grado, all’ergastolo (per entrambi). Dopo che è già intervenuto un appello che ha abbassato i dispositivi a 24 anni (per Finnegan) e a 22 (per Hjorth). Dopo che la Cassazione ha disposto un nuovo procedimento a loro carico, annullando di fatto anche le nuove pene, perché era necessario, avevano detto i supremi giudici, rivedere le circostanze aggravanti e il reato di concorso in omicidio e quello di resistenza a pubblico ufficiale. Dopo che, l’assise, appunto, ha assolto Finnegan da questo ultimo capo d’accusa perché «il fatto non sussiste».
Adesso questo. Un «ridimensionamento assai importante» (dice Francesco Petrelli, l’avvocato di Hjorth) che, in pratica, dimezza la sentenza: «Per noi è una soddisfazione, il riconoscimento del concorso anomalo significa sostanzialmente passare dal dolo alla colpa». Cioè «al ragazzo si muove solo un rimprovero per non aver previsto quello che sarebbe potuto accadere e degenerare in modo così drammatico».
Commento a cui non replica la vedova di Cerciello Rega, la signora Rosamaria, che è «devastata, lo è da cinque anni, porta dentro di sé un dolore enorme, ha dovuto chiudere per l’ultima volta gli occhi di suo marito sul lettino dell’obitorio», aggiunge, invece, Massimo Ferrandino, che è il legale della famiglia. Il dolore, quello che non se ne va, quello che non si scalfisce, quello che non ha niente a che vedere coi processi e con la giustizia, ma è sentimento, è privato, «è nato quella maledetta sera in cui Elder, con ben undici coltellate, ha ammazzato il marito (di Rosamaria, ndr) con il quale, lo ricordo, era sposata da appena un mese». Una vicenda per certi versi ancora aperta, dato che «faremo senz’altro» ricorso in Cassazione (parola di Petrelli).
Una vicenda che lascia l’amaro in bocca, per esempio all’associazione Vittime del dovere che si è costituita pure parte civile nel processo e che non riesce a nascondere «un certo stupore per le pene irrogate in relazione a questo brutale omicidio» («Riteniamo che non possa escludere almeno una valutazione critica, soprattutto in relazione ad analoghi casi», spiega il legale Stefano Maccioni). Una vicenda che anche per il collega Franco Coppi, che segue direttamente la signora Rosamaria, vede «rispetto alla gravità del fatto una sentenza indubbiamente generosa, anche se non eravamo interessati all’entità della condanna, bensì al fatto che venisse riconosciuta la responsabilità di entrambi».
La decisione, insomma, non è di quelle “destinate a far discutere”, per usare una frase fatta che va sempre bene in circostanze del genere: e non lo è per il semplice fatto che sta già facendo discutere. «Mi chiedo solo», Ferrandino è telegrafico, «quale sarebbe stata una pena equa in America se due ragazzi italiani, in una calda serata di luglio, avessero dapprima cercato di acquistare della cocaina, per poi mettere in scena un tentativo di scambio cocaina-zainetto e, alla fine, se avessero ammazzato barbaramente un poliziotto americano».
Sono i fatti, ridotti all’osso, sintetizzati più che si può. I fatti di quella sera maledetta, in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati di Roma. Quando il vicebrigadiere Cerciello Rega, gli occhi limpidi come il suo stato di servizio, 35 anni da compiere di lì a qualche giorno, è per strada assieme al collega Andrea Varriale. I due stanno cercando di sventare un “cavallo di ritorno”, ossia il tentativo di un furto con ricatto, per quello che sembra un semplice borsello rubato in piazza Mastai, a Trastevere. Lo hanno sottratto, a Sergio Brugiatelli, un pusher che fa l’informatore per la polizia, Finnegan e Hjorth: lo hanno contattato, gli hanno detto che sono disposti a farglielo riavere a patto di ottenere, in cambio, un grammo di cocaina e cento euro. I tre prendono un appuntamento, ma Brugiatelli non si presenta. Al suo posto ci vanno, invece, in borghese, Cerciello Rega e Varriale: e quando le cose iniziano a farsi concitate, quando ne nasce una colluttazione, Finnegan estrae un pugnale con una lama di diciotto centimetri, chissà come stava nascosto dentro la felpa, e colpisce, senza sapere di star colpendo un militare, il vicebrigadiere che lascia un’enorme pozza di sangue sui sampietrini.