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Primo Maggio, è la festa dei sindacati. Non dei lavoratori che non possono permettersi di fermarsi

Gianluigi Paragone
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Il Primo maggio pioveva. C’era il famoso concertone, c’erano le iniziative in omaggio ai lavoratori e a chi, di loro, ha perso la vita lavorando o infortunandosi. C’erano i sindacati che parlavano e pure quelli della sinistra che sfoggiavano le loro idee sul lavoro. E magari raccoglievano i firme.

C’erano i turisti. Poi c’erano quelli che lavoravano il primo maggio, ed erano tanti. Magari consegnavano pizze e piatti pronti di cucina etnica sfrecciando in bicicletta perché quando piove non si ha voglia di uscire e quindi si ordina sulle piattaforme del delivery. Si lavora sotto il controllo di un algoritmo, gestito da una multinazionale con sede fiscale dove si pagano meno tasse. Lo stesso chi lavora con le piattaforme dei bed and breakfast.

C’erano i lavoratori che stavano alla cassa o nelle corsie tra gli scaffali dei supermercati. Oppure ancora quelli che tenevano alzate le saracinesche nella speranza che qualche turista entrasse e comprasse.

 

IL MERCATISMO
Hanno lavorato nei bar, nei ristoranti e nelle pizzerie; hanno lavorato negli ospedali, nei musei, e potrei continuare a lungo con un elenco che non sarà mai esaustivo. Perché il Primo maggio è la festa dei sindacati che si guardano allo specchio, ma non dei lavoratori che devono fare i conti con un costo della vita che è schizzato alle stelle.

Si lavora il Primo maggio perché si hanno tante rate da pagare alla fine del mese. Questa è la vita nel mondo che ha scavallato le ideologie novecentesche ma vuole festeggiare date simboliche che inchiodano i dibattiti esattamente nelle caselle della destra e della sinistra.

Riempiamo le discussioni di ciò che è ideologico in un tempo che così si dice - ha archiviato le idee del Novecento. L’ultimo -ismo che resiste è quel mercatismo che ci ha illusi che si possa vivere al di sopra delle proprie possibilità, che tutto possa essere accessibile a tutti se lo prendi a rate, se compri oggi e paghi domani. Tutto facile nel mondo a debito. Siamo pieni di scadenze e di rate, viviamo dentro una clessidra dove a data certa ti prelevano dal conto corrente l’importo di quel che nemmeno più ti ricordi di dover pagare.

E non è solo l’affitto, o la rata del mutuo della casa; ci sono le bollette, l’assicurazione, le scadenze di quel che abbiamo acquistato nei megastore affidandoci alle formule di prestito o di rateizzazioni. Poi ci sono gli abbonamenti che con un clic abbiamo attivato: Sky, Dazn, Amazon Prime, il Cloud, Spotify e via elencando.

Non ci siamo mai fatti veramente il conto di questo totale impazzito perché non ce ne rendevamo... conto. Va tutto bene finche non capita nulla; appena appena qualcosa si disallinea viene giù tutto come nel domino. E allora sono affanni continui.

Il Primo maggio, mentre quelli suonavano e i sindacalisti alzavano la voce recitando a soggetto, i lavoratori hanno lavorato per star dietro alla vita a rate. Al netto delle liturgie, c’è la quotidianità e il mondo che ci hanno costruito attorno.

 

LE COMPARSE
I lavoratori hanno paura di non “starci dentro” e di essere estromessi da quei miracoli della modernità che tendono a espellerti dai processi produttivi e pure dalle professioni. C’è quel mondo fatto di robot, di algoritmi e intelligenze artificiali; c’è quel futuro che non si può fermare.

E se non si può fermare il futuro, oggi nemmeno i lavoratori veri si possono permettere il lusso di fermarsi. Con buona pace di quella sinistra che ha smontato lo Statuto dei Lavoratori, da Treu a Renzi passando per D’Alema; di quegli europeisti che dicevano che «lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se avessimo lavorato un giorno in più»; e infine di quei sindacalisti che non si sono accorti che stavano lentamente e inesorabilmente diventando delle comparse. Del concertone.

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