Biennale di Venezia, la proposta: i padiglioni accolgano chi non ha voce
«Qui non si boicotta nessuno», dice Pietrangelo Buttafuoco all’apertura ufficiale della 60esima Mostra Internazionale d’Arte di Venezia, un discorso dai toni alti cui non eravamo abituati. Eppure, a poca distanza, un gruppo di manifestanti, saranno state un centinaio di persone, hanno inscenato una manifestazione di fronte al Padiglione d’Israele al momento ancora chiuso, raggiungendo gli spazi di Stati Uniti e Germania. La sensazione è che nella gigantesca kermesse dedicata agli stranieri ovunque, ai senza patria, agli esclusi, agli emarginati, ai perseguitati anche in questo caso si facciano classifiche. Stranieri sì, non tutti uguali.
Nel momento grave in cui siamo arrivati, cito ancora il presidente Buttafuoco, gli stranieri sono soprattutto quei popoli cui non viene data libertà di parola adesso perché identificati come nemici, quando invece si possono criticare e incolpare un governo, un dittatore, ma non un popolo. È la terza volta, due per arte e una per architettura, che la Russia non ha rappresentanza alla Biennale. D’accordo che ogni padiglione ha giurisdizione a sé, come fosse un’ambasciata, ma non è giusto che nessun artista russo possa mostrare le sue opere o esprimere i propri pensieri. Era nell’aria che ci sarebbero stati problemi nei confronti di Israele: il curatore e l’artista Ruth Patir hanno scelto di tenere chiuso lo spazio sino a che non sarà pattuito un cessate il fuoco e non saranno liberati gli ostaggi nelle mani di Hamas. Se la comunità d’Israele chiede un cambiamento andrebbe incoraggiata semmai, non certo boicottata perché l’arte a differenza della politica è libera e vuole la pace tra i popoli. E allora questa divisione per rappresentanze nazionali figlia delle lontane esposizioni universali dei primi del ‘900 oggi non ha forse più senso di esistere. Le grandi mostre internazionali disegnano una comunità globale utopisticamente senza steccati. Pur avendo molto rispetto per le radici che ciascuno di noi si porta dietro e di cui è costruito il proprio dna, l’unica soluzione per superare boicottaggi è contaminare tale struttura chiedendo per esempio ai paesi democratici di ospitare artisti senza rappresentanza.
L’intuizione l’ebbe Achille Bonito Oliva nel lontano 1993 in quella che rimane la più bella Biennale degli ultimi trent’anni, tutta proiettata verso il futuro. In tre decenni abbiamo assistito a una proliferazione e a una crescita progressiva anno per anno di nuove partecipazioni nazionali, però non andrebbero dimenticati i veri stranieri, chi al momento non ha voce per ragioni squisitamente politiche che con l’arte non dovrebbero avere a che fare. La visita ai Padiglioni al secondo giorno di Biennale più che una maratona assomiglia a una corsa a ostacoli causate da code lunghissime come quelle per entrare ai giochi di Gardaland nelle giornate di punta. Molto atteso, a proposito delle “new entries” è il Benin con una mostra collettiva di quattro artisti intitolata Everything Precious Is Fragile, in cui si raccontano la tratta degli schiavi, la figura dell’Amazzone, la spiritualità e la religione Voodoo, il pensiero Gèlèdé, incentrato sul concetto di rematriation: un’interpretazione femminista dell’idea di “restituzione”, non solo legata agli oggetti, ma anche riferita al ritorno alla filosofia e agli ideali di questa terra antecedenti all’epoca coloniale. Molto interessante la scelta dell’Albania incentrata sulla pittrice figurativa Iva Lulashi, già nota in Italia e infatti la mostra è curata da Antonio Grulli, che lavora su immagini molto forti legate al corpo femminile e alla sessualità.
Per chi ha voglia di sorridere, rovesciare gli stereotipi, imperdibile il Padiglione della Svizzera con la personale di Guerriero do Divino Amor curata da Andrea Bellini - il nome, tutto un programma, svizzero per davvero - autore di una monumentale e superkitsch saga che prende in giro la storia classica, una parodia di Roma antica che sarebbe stata benissimo anche al Padiglione Italia. Di tutt’altro tenore l’impalpabile Padiglione della Corea, dove non c’è nulla da vedere e tanto da odorare: l’artista Koo Jeong-A ha raccolto ben 600 profumi di diverse città ricavandoli dai ricordi di altrettante persone.