Acca Larentia, il libro politico di Valentina Mira: nuovo sfregio ai giovani uccisi
Lo sberleffo al posto della giustizia. L’infamia contro il martirio. L’odio contrapposto alla verità dei fatti. Ecco in scena Valentina Mira, che ambisce persino al premio Strega per aver vergato un libro politicissimo in cui finiscono nuovamente sottoterra quei ragazzi che quasi mezzo secolo fa vennero ammazzati a via Acca Larentia, periferia sud di Roma. Questa scrittrice militante non ha mai conosciuto, per la sua giovane età, Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti. E nemmeno Stefano Recchioni, assassinato poche ore dopo i primi due, e persino Alberto Giaquinto, ucciso un anno dopo alla commemorazione di quella strage in un altro quartiere popolare.
A sparare fu un poliziotto. L’anno prima era stato un altro appartenente alle forze dell’ordine a far fuoco su Recchioni. I tre Caduti di Acca Larentia erano come i loro carnefici; mica vittime, questa la strampalata – e permettetemelo vergognosa – tesi di un libro intitolato Dalla stessa parte mi troverai. Sì, quella del pregiudizio, delle bugie, dell’oltraggio a chi diventò bersaglio per le sue idee. Altro che “uguali”. Gli assassini erano rossi e non c’è mai stata giustizia. Di uno dei presunti killer, Mario Scrocca, la Mira si è praticamente innamorata post mortem: arrestato, si impiccò in cella. E la vedova ha raccontato quello che voleva alla compagna scrittrice.
IO C’ERO
Cara Mira, io ad Acca Larentia ho militato. Lei ha il coraggio di lamentarsi delle critiche, degli attacchi, che le hanno fatto anche tanta pubblicità. Ma forse voleva mazzi di fiori per quelle robacce che ha scritto? E proprio perché gli anni di piombo li ho vissuti – a differenza sua – so che cosa voglia dire sentire gli spari e salvare la pelle. Invece, il 7 gennaio del 1978 non furono fortunati quei ragazzi che lei oltraggia, arrivando tanti anni dopo a dire che là dentro eravamo carnefici. Posso chiederle se si vergogna un po’ nel calunniare ragazzi scomparsi – erano più giovani dei suoi trent’anni – senza sapere nulla della loro vita, dell’umiltà delle loro famiglie, della dignità con cui affrontavano la militanza politica nei quartieri più popolari della Capitale? Valentina Mira non sa davvero quanti di noi sono passati per via Acca Larentia, quanti hanno passato tra quelle mura mesi, anni o decenni di militanza. Sempre rischiando, proprio perché i loro carnefici non tolleravano la presenza di una generazione di destra in città. Proprio lì, dove vivevano operai e impiegati. Adesso arriva lei, fresca fresca, a raccontare che l’orrore omicida era colpa nostra. No, in quel quartiere eravamo ragazzi del Msi che ogni giorno mettevano a repentaglio la vita persino per attaccare manifesti, altro che carnefici...
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UN’APPENDICE DI VERITÀ
La scriva un’appendice di verità alla sua opera fin troppo strombazzata, se lo faccia raccontare che cosa significava trovarsi da soli davanti a quella sezione mentre dal vicino Liceo scientifico arrivavano duecento estremisti rossi a gridare «camerata basco nero, il tuo posto al cimitero». Per “difenderti” dovevi prendere quell’astuccio di occhiali Rayban che andavano di moda, impugnarlo come fosse una pistola, incurvare le gambe e fingere di essere pronto a sparare per far scappare gli aspiranti carnefici. Quelli veri. Ma lei queste cose non le sa. Non le ha nemmeno chiesto. Le ha rifiutate per ideologia. Chissà se le hanno mai raccontato le storie di chi, per la militanza attiva in un quartiere rosso, si vedeva bruciare l’automobile a duecento metri dal commissariato di polizia e incendiare la casa con i propri congiunti dentro, rischiando la fine dei fratelli Mattei.
Carnefici anche loro? Ed ora questo accumulo di pagine che offende chi quegli anni li ha vissuti pericolosamente – ricorda un celebre scrittore? – potrebbe persino aggiudicarsi il Premio Strega? Ma dove siamo arrivati, alla celebrazione all’incontrario? I terroristi diventano santi e i morti ammazzati sono i killer? Un riconoscimento culturale di quella portata deve diventare una medaglia al fine di confondere chi legge su chi era il delinquente in quella strage? Al punto di assassinare ancora, quasi cinquant’anni dopo, quelle vittime che non ce l’hanno fatta a scrivere un libro, a realizzare un sogno, a vivere la loro vita? Ha mai saputo, Valentina Mira, chi inventò uno slogan odioso, che giustificava il sangue versato a destra e che suonava «uccidere un fascista non è reato»?
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QUALE CULTURA?
Lei, compagna scrittrice, è di quella pasta lì? E non se ne vergogna? È questa la “cultura”? Le spiego una cosa, cara Mira, e non mi creda presuntuoso. Ma io, lei, e tanti altri una cosa dovremmo averla saputa, anche se per lei non vale la pena di scriverla: quei giovani morirono nel nome dell’antifascismo militante. Ecco perché è così difficile dirsi antifascisti quando vedevi morire ammazzati quelli che erano i tuoi camerati, quelli con cui trascorrevi la tua giovinezza, issavi bandiere bianco rosso e verde, inneggiavi ad una fiamma tricolore, amavi la tua Patria e dovevi difenderti spalla a spalla da chi ti voleva morto. Ed ora ci tocca subire la penna falsa di una cattiva maestra dei nostri tempi. «Oltre il rogo non vige ira nemica», disse Giancarlo Pajetta in morte di Giorgio Almirante, davanti al feretro a cui rendeva omaggio. Ma forse Valentina Mira non sa nemmeno chi fosse Pajetta.
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