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Fermina, una vita tragica: un marito e tre figli morti in 4 incidenti diversi

Giordano Teodoldi
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I Greci avevano una divinità per tutto: per il furto, per la discordia, per la sventura e la miseria. La divinizzazione era il loro modo di onorare e sopportare la vita, nel bene e nel male. A volte avevano più divinità, con varie sfumature, per una stessa cosa: la sventura e la miseria erano ora Ate, ora Eris, ora Oyzis, ora la Moira (che si divide anche nelle tre Moire: le Parche dei romani), ora Acli. Tutte queste divinità esprimevano un aspetto particolare: l’accecamento del dolore che reca sciagure, la discordia, la depressione, il destino avverso, la disperazione. I

eri è stata pubblicata la notizia dell’ultimo lutto di Fermina Cauto, originaria di Madrid e residente da anni a Nizza Monferrato (Asti); sabato è morto il figlio più piccolo Mirco, 34 anni, impiegato nel settore vinicolo e, per passione, dj molto noto nella zona. L’uomo ha perso il controllo della sua moto Yamaha all’altezza di Bazzana, frazione del comune di Mombaruzzo. Stava andando a raggiungere alcuni amici, è morto sul colpo, senza coinvolgere altri mezzi. Una tragedia, ma che si aggiunge alle precedenti: nel 2002 la donna perse il marito Roberto, che, lavorando al porto di Genova, stava caricando un container quando fu investito dall’auto di un collega. Solo un anno dopo le fu strappato il primo figlio, Hernando Rodriguez Cauto, avuto dal primo matrimonio. La causa della morte: un incidente automobilistico a Nizza Monferrato. Il ragazzo fu trasferito in ospedale a Torino, dove era morto dopo alcune ore di agonia. Nel 2016 a Opessina, tra Agliano e Castelnuovo Calcea, in un incidente avvenuto all’alba sulla strada Asti – Mare, perde la vita anche la figlia Sonia, 22 anni, commessa in un negozio di Nizza. Sabato, dopo l’ennesima tragedia che si è abbattuta su Fermina, sterminando con assurdo accanimento gran parte della sua famiglia - le resta un altro figlio dal primo matrimonio; la donna venne in Italia proprio a seguito della morte del primo marito, aprendo un ristorante di specialità iberiche -, gli amici di Mirco sono andati da lei per confortarla, ed è stata organizzata una fiaccolata. Questa la cronaca, e verrebbe quasi da pensare che, almeno nell’ultimo decesso, ci possa essere qualcosa di torbido, o di non del tutto casuale.

 

 


Come è possibile essere così sventurati da perdere un marito e tre figli (senza voler mettere nel novero la morte del primo marito), nel giro di ventidue anni, e tutti per la medesima circostanza: un incidente d’auto o di moto? Quale diabolica macchinazione, quale maledizione o possessione uscita da un romanzo di Stephen King ha preso il controllo di quelle auto infernali e della Yamaha di Mirco? Quale imperscrutabile colpa deve scontare Fermina Cauto, per doverla pagare con sofferenze degne di quelle bibliche di Giobbe? Certo, qui non c’è nessuna colpa, ma la nostra coscienza ha così tanta ripugnanza a considerare una casualità tanto crudele, che va in cerca di qualunque spiegazione, anche la più primitiva. Del resto, è molto probabile che figure, per l’appunto, come quella di Giobbe, o forse anche il perseguitato Edipo di Sofocle, non siano nate dalla pura fantasia dei poeti, ma da personaggi realmente esistiti nella storia umana, anch’essi, come la povera.

 

 

Fermina, caricati di guai e sciagure immani, ripetuti, e di cui solo la religione o l’arte tragica riuscivano a rendere conto. E torniamo così all’iniziale carrellata, al Pantheon greco del dolore e della sventura. Sicuramente, andando a studiare bene gli antichi miti, ci sarà stata anche una divinità particolarmente calzante per questo tipo di persecuzione ripetuta, e sinistramente identica nel suo manifestarsi: perché nulla delle cose umane era ignorato dall’abitudine greca alla divinizzazione. I Greci avevano questo nobile e invidiabile dono, dunque, di non respingere nulla come assolutamente cattivo, di cogliere in ogni manifestazione dell’esistenza, per quanto infelice e intollerabile, una necessità, un appuntamento cui non ci si può sottrarre. Probabilmente il sollievo che queste credenze arrecavano a coloro che venivano colpiti dalle disgrazie era relativo, ma era necessario conservare un legame con la vita anche di fronte alla persecuzione più ostinata. Quando vediamo le statue greche, nella loro apollinea bellezza, non dobbiamo immaginare che quegli uomini perfetti non soffrissero, ma sapevano collocare le loro sofferenze in un quadro più ampio, dove anche l’atroce, l’orrendo, il mostruoso si inserivano armoniosamente nel tutto della natura.

 

 

 

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