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Boom dei cibi senza glutine, i prezzi vanno alle stelle (ma non a tutti fanno bene)

Luca Puccini
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Biscotti, pasta, merendine, addirittura la “farina”: tutto senza glutine. Pochi anni fa, i celiachi la spesa la facevano in farmacia: di prodotti per loro, al super, ce n’era niente. E quel che trovavano costava un salasso. Ora la situazione è cambiata, ma solo a metà: sugli scaffali dell’ipermercato, e anche dei negozietti di provincia, c’è ogni cosa, persino il panino modello hamburger. Epperò lo scontrino è salato lo stesso. Anzi, in una certa misura è pure aumentato. Nel senso che uno studio di Assotuenti condotto assieme al Crc, che è il Centro di formazione e ricerca sui consumi, certifica come, negli ultimi tre anni, gli alimenti gluten-free siano rincarati in media del 10%, con punte fino al più 23,7% nel settore dei gelati e un esborso maggiorato del 7% sulla pasta. L’inflazione, certo. Ma non solo: il report Crc-Assoutenti rileva che le differenze (di conto) più significative sono quelle in rapporto ai prodotti tradizionali. E cioè: a parità di marca, la forbice dei listini è mediamente su del 73% quando si tratta di alimenti senza glutine. Alcune fette biscottate costano il 257% in più; una scatola di biscotti viene venduta al 41,6% in più; per una confezione di pasta, che siano spaghetti o fusilli, si spende circa il 110% in più. In media, dunque, aumenti del 100% Tutta colpa del caro-spesa? Ni. C’entra soprattutto che il mercato del gluten-free è sia business che moda.

 


«È in costante crescita» ammette Furio Truzzi, il presidente del Crc, «nel 2023 il giro d’affari ha raggiunto i 400 milioni di euro». La classica legge della domanda e dell’offerta: «Un numero sempre maggiore di cittadini sceglie il gluten-free anche in assenza di intolleranze o allergie: secondo le ultime stime il 21% degli italiani acquista e consuma abitualmente prodotti senza glutine». Il 21% degli italiani significa oltre uno su cinque, ossia (su una popolazione di circa 58 milioni di persone) ben più di 12 milioni. Ma i celiaci, quelli veri, quelli con una diagnosi, sono, seppure in crescita, secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, appena 241.729. Qualcosa non quadra. E non quadra perché nell’ultimo periodo, complici una certa narrazione, notizie imprecise sul web e vip che l’hanno sperimentata, la dieta senza glutine è entrata in voga. Ci sembra di mangiare sano, leggero, magari anche di dimagrire. È davvero così? «Esistono due tipi di prodotti senza glutine: quelli naturali, come il grano saraceno, che, senza eccedere, vanno benissimo; e quelli industriali, sui quali occorre sempre fare la tara», racconta Giuseppe Rotilio, nutrizionista ed ex presidente dell’Inn, l’Istituto nazionale della nutrizione: «Questo secondo settore è molto difficile da controllare. Viene tolto il glutine, ma come?». Uno studio australiano di qualche anno fa ha passato in rassegna 3.200 alimenti senza glutine e ha osservato che tutti avevano valori nutrizionali e un apporto calorico in media coi cibi tradizionali. Nel migliore dei casi, per chi non è celiaco, la pasta senza glutine non è dietetica; nel peggiore non è nemmeno sana perché un consumo eccessivo, trattandosi comunque sempre di carboidrati, secondo alcune ricerche, porterebbe a un rischio di obesità. Col risultato, per giunta, che il boom di vendite non fa che aumentarne i prezzi, un doppio autogol. Da una parte chi non ne ha bisogno (stra)paga un prodotto che nemmeno gli è utile e dall’altra chi ne necessita seriamente è costretto a metter mano al portafoglio sempre di più.

 

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