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Vittorio Emanuele, i re sembrano inetti perché non sono di questo mondo

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Vieni avanti, Savoia! Della buonanima di Vittorio Emanuele, tra i suoi mancati sudditi, resterà il ricordo non tanto di un irresponsabile con un morto sulla coscienza, quanto quello di un inarrivabile babbeo - chiedo scusa agli amici monarchici per il tecnicismo. Suo figlio e attuale pretendente alla corona Emmanuele Filiberto ha messo a frutto l'aria che respirava in famiglia per costruirsi una carriera da simpatico guitto televisivo, fra Ballando sotto le stelle e spot televisivi. A segnare per sempre la dinastia in modo negativo fu però il bisnonno, Vittorio Emanuele III, al quale l’opinione pubblica ha imputato di tutto da Caporetto al fascismo alla fuga di fronte al pericolo, confondendo la statura morale e politica del sovrano con quella fisica. Non che i predecessori godano di imperitura gloria: Umberto I è sinonimo di Italietta giolittiana e crispina, un po' corrotta, un po' illusa di essere una Potenza. L'Italia di Adua.

Non si salva neppure Vittorio Emanuele II, pater patriae, di cui si ricordano le imprese amorose e le sconfitte militari, la passione per la caccia e la scarsa igiene. Simpatico/apprezzabile risulta invece Carlo Alberto: concede lo Statuto e si toglie dalle balle al primo insuccesso. Il monarca perfetto per l'età borghese. A ben vedere, è tutta la dinastia a godere di cattiva stampa, tanto che l'unico Savoia fra i giganti della storia è un parigino che fece fortuna a Vienna, il principe Eugenio.

Da orgogliosamente provinciali quali siamo, noi Italiani vediamo nelle altrui famiglie regnanti tutto il bene che non cogliamo nella ex nostra. E tuttavia è difficile non segnalare come gli stessi Windsor, a fronte di una Elisabetta Coi Controcoglioni, per il resto non siano altro che il cast di una soap opera inglese, un programma TV in cui abbondano corna, scandali, liti (ma anche drammi, come quello di Carlo). Inutile nasconderlo, ogni dinastia è così. Prendiamo la Francia borbonica: due titani, Enrico IV e il Re Sole, circondati da sfigati fatti in serie, a partire dal nome, sempre Luigi, seguito da un numero progressivo. Chi studia freddamente i sistemi politici concluderà: è il guaio del principio dinastico il quale dona sì stabilità allo Stato, però fa affidamento solo sulla formazione del principino che, se nasce ciula, ciula rimane. Chi invece si è occupato della regalità dal punto di vista della mitologia, vedrebbe nella inettitudine delle teste coronate una conseguenza del loro essere a cavallo di due mondi. La Terra e il Cielo. Gran parte scienze umane del secolo scorso si è interessata al tema della regalità sacra e dei fondamenti mitici o antropologici dell'istituzione monarchica.

 

James Frazer, A.M. Hocart, René Girard, Roberto Calasso, Georges Bataille, Masao Yamaguchi, Robert Graves, Marc Bloch, Ernst Kantorowicz. L'elemento comune a tutti questi studiosi così diversi fra loro è la conclusione esplicita o implicita che la monarchia è finita perché non ha più radici religiose.

Dio è morto e con lui pure il re. Ancora oggi il legame essenziale fra trono e divinità non si riesce a occultare: i monarchi europei sono in generale anche i capi delle rispettive chiese nazionali. Il Tenno giapponese discende dalla grande dea Amaterasu. Il re saudita è il Guardiano dei luoghi santi islamici, in Thailandia il sovrano è un essere sacro e protegge il buddismo e tutti i culti riconosciuti, e così via. Maldestri, irritanti, pericolosi, i re non appartengono totalmente al nostro mondo. Erano figure ibride già nell'Antico Regime, oggi ci risultano incomprensibili. 

 

Vittorio Emanuele è l'esempio lampante di questa condizione: inetto e antipatico, di lui si ricorda la battuta "champagnino?" finita in un documentario che ricostruiva il caso del tedesco cui sparò. È la versione al passo coi tempi della famosa frase di Maria Antonietta sulle brioches, un falso storico che ha in sé una grande verità. Baudelaire, che fu il più grande indagatore di come il vecchio mondo dei troni e degli altari ancora influenzi quello nuovo, creò una immagine immortale: l’Albatros. L’animale più maestoso quando vola nel cielo appare brutto e ridicolo una volta costretto a terra. Metafora autogratificante dell’artista, vale però anche per l'altro grande solitario ed escluso, vale a dire il re. Non a caso l'albatros per il poeta è il «principe delle nubi» e «re dell'azzurro». Anche questo fu Vittorio Emanuele; noi non siamo in grado di comprenderlo davvero ma adesso lui è tornato da Chi è in grado di farlo.

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