Gigi Riva, l'ultimo saluto alla leggenda
Il feretro portato dai superstiti del grande Cagliari, i campioni di ieri e di oggi, le autorità. I 30mila sardi presenti e commossi. Ma soprattutto la sua gente. Il figlio Nicola: «Un hombre vertical»
dall'inviato a Cagliari
Iniziamo dalla fine. Iniziamo dall’eroismo delle persone perbene e del loro ruvido profeta.
Iniziamo dal tramonto lampeggiante sul sagrato del santuario di Bonaria (dove voleva essere sepolto, e verrà accontentato). E dalla bara avvolta dalle due maglie del Cagliari e della nazionale sommersa da una coltre di rose rosse, e portata- con fatica- dai superstiti dello scudetto: Beppe Tomasini detto Tomas, il garibaldino Ricciotti Greatti, il portierone Reginato, Sandro Camba il tutore di Nenè riserva di Pelè a cui Gigi salvò più volte la vita.
Iniziamo dai cori insindacabili degli ultrà («Un Gigi Riva, c’è solo un Gigi Riva!!»); e da quella selva di striscioni e sciarpe rossoblù zuppe di lacrime, che fasciano l’orizzonte come in un romanzo di Garcia Marquez. «No me dejas veerlo», non ditemi di vederlo perché non ci credo che Gigirriva sia morto: cita proprio Marquez, un collega della Nuova Sardegna immerso, qui, nella folla dei 30mila accorsi al funerale della leggenda.
LA SUA GENTE Ecco. Iniziamo dalla fine, e andiamo a ritroso, senza timore di retorica. E osserviamo la Cagliari che, sulla ballata di Piero Marras, applaude il figlio di Gigi, Nicola Riva, clone del padre, un ex calciatore oppresso dal mito di famiglia oggi dirigente aeroportuale. Il quale Nicola, consumatasi la sciapa omelia del vescovo, chiosa, timidamente, accanto all’altare: «Non è andato via solo il nostro papà o il nonno, è andato via un familiare di tanti sardi e di tante persone che gli volevano bene. Ci dicevano che papà è stato un grande uomo, al di là del campione che è stato. Questa è la sua gente, quella che quando è venuto qui a 18 anni gli ha dato una famiglia, quella che aveva perso. Lui ha ricambiato tutto questo». E lì, quando gli esce l’appellativo che più s’attaglia all’eroe, «Hombre vertical»; be’, gli applausi fanno una veronica, coprono tutte le aritmie degli astanti.
La chiesa è invasa da una fauna fantastica. Nelle ultime panchine brulicano tutti i giocatori del Cagliari di tutte le categorie, dai primi calci alla prima squadra col capitano Pavoletti a curare l’amalgama.
In terza fila si staglia lo stato maggiore dello sport: Giovanni Malagò, Luciano Spalletti e pezzi di leggenda in ordine sparso, Ranieri, Cannavaro, Zola, Buffon, Albertini, Marco Tardelli con l’occhio tumefatto dal dolore. In seconda fila ecco le autorità: dal sardissimo sindaco Paolo Truzzu al governatore Christian Solinas, a dirigenti pubblici con la maglia originale dello scudetto che penzola sotto il blazer, alla marea dei sindaci in tricolore d’ogni paese dalla Barbagia alla Costa Smeralda. In prima fila, il feretro tra le corone di fiori e un cero pasquale. È il grande cuore di Rombo di Tuono diviso in due alveoli. A destra, siedono i figli e la compagna «sempre bellissima come Brigitte Bardot» di Gigi; a sinistra, si ergono i vecchi compagni di squadra e due carabinieri con pennacchi che seguono il ritmo dei canti gregoriani, ad invadere l’aria. Si nota anche la folla di vescovi, diaconi e presbiteri di varia età e provenienza, ognuno con la voglia di recitare un’omelia come in coro gospel.
L’abside e il sagrato di Bonaria sono un immenso catino d’umanità. La commozione possiede l’intensità di una finale di Champions.
«Se non li vedi non puoi capire, è un’Italia d’altri tempi: è quella del Presidente di società lombardo che vendette il giovane Riva al Cagliari in virtù di una stretta di mano», mi fa il collega Luca Telese, distolto dalla comunione, uno dei massimi esperti viventi di Riva, «ed è l’Italia del boom, è quella di Danilo Piroddi il ragazzino, poverissimo, a cui una cannonata di Riva spaccò un braccio, ma quel gesso firmato dal campione venduto a peso d’oro gli cambiò la vita; è Gigi che compra lotti agricoli di nessun valore, giusto per dare ossigeno ai contadini tifosi non abbienti che non volevano la sua carità...».
MONDO ANTICO E qui il pensiero mi corre a un’ora prima di questa pazzesca liturgia collettiva. Esattamente a quando Tomas, il gemello di Gigi, appena devastato da lutto, mi assesta l’ultimo ricordo: «Vivevamo in una foresteria: io, Gigi, Niccolai, Domenghini e Nenè: c’era il rientro ogni sera alle 22.30, sulla fiducia del mister Scopigno. Gigi avrebbe potuto rientrare quando voleva, ma non sgarrava mai. Vede, questa mentalità, il senso del sacrificio, sia a me che a lui ci veniva dai sacrifici fatti in fabbrica, mentre altri come il portiere Reginato venivano dalle cartiere. Gigi io l’ho visto il venerdì prima che morisse: parlavamo di un calcio diventato troppo fisico, troppi passaggi indietro, poco arrembaggio. Un mondo antico...». Un mondo antico. Ogni pietra, ogni sorriso, ogni respiro della Sardegna, oggi richiama Gigi Riva. Salgo sul taxi e rifletto ad alta voce su questo sortilegio insulare che da un’area di rigore è stato in grado di rendere gli uomini migliori. Poi, per caso, l’occhio cade sul nome del taxi, “Cagliari rossoblù, numero 11”, come la maglia di Gigi. E sento come il sibilo di una staffilata nel sette della porta. Poi arriva il rombo di tuono che, da queste parti, accompagna sempre i migliori tramonti...