Fiume, così cent'anni fa divenne italiana
Con un «Patto di amicizia e di collaborazione cordiale» sottoscritto a Roma il 27 gennaio di cento anni fa il Regno d’Italia e il Regno dei serbi, croati e sloveni pensarono di aver chiuso diplomaticamente la “questione fiumana”. Col trattato veniva spartito il territorio dello Stato libero, secondo una frontiera tracciata da una commissione mista le cui risultanze saranno poi ratificate con la Convenzione di Nettuno, il 20 luglio 1925.
L’annessione di Fiume era stata proclamata dal capo del governo Benito Mussolini il 16 marzo 1924, che all’epoca dell’impresa di Gabriele d’Annunzio del settembre 1919 aveva giocato sporco col Poeta e con l’opinione pubblica italiana. La città adriatica di Fiume aveva acceso gli animi, era stato sparso sangue di italiani contro italiani, minata la credibilità dello Stato, incuneato il virus della sovversione eroica delle regole. Fiume era stato il vetrino di incubazione della modernità, ma anche il germe che aveva dissolto l’idea stessa della Società delle Nazioni e dell’utopia della risoluzione pacifica delle controversie internazionali. La conclusione vittoriosa della prima guerra mondiale aveva legittimato le aspettative dell’Italia a vedersi riconosciuto quanto stabilito dal Patto di Londra che ne aveva determinato l’ingresso al fianco delle potenze dell’Intesa. Ma alla Conferenza di pace di Parigi i plenipotenziari Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino avevano aggiunto alle clausole del Patto di Londra anche la sorte della Città di Fiume, assegnata invece alla Croazia.
LA DICHIARAZIONE
La Russia zarista, che aveva sottoscritto il Patto, non esisteva più, e gli Stati Uniti che sedevano dalla parte dei vincitori non avevano alcun impegno da rispettare: il presidente Woodrow Wilson, anzi, artefice dei Quattordici punti per una pace giusta, il 19 aprile 1919 aveva proposto la creazione di uno Stato libero di Fiume. Nel 1915 non era stata ipotizzata la disgregazione dell’impero austro-ungarico e tanto meno la creazione di uno stato artificiale degli slavi del sud (serbi, sloveni, croati, bosniaci), peraltro durante il conflitto schierati su fronti avversi e con antiche ruggini che riesploderanno sanguinosamente negli Anni ‘90. Il cannone tuonava ancora sul fronte italo-austriaco quando il Consiglio nazionale fiumano il 29 ottobre 1918 aveva dichiarato l’annessione al Regno d’Italia.
Gli italiani rappresentavano l’etnia numericamente più consistente e, come accadeva spesso sulla costa istriana e dalmata, quella politicamente, commercialmente e socialmente più rappresentativa. L’italiano era la lingua franca e non di rado famiglie slave si italianizzavano. Diversa la situazione nelle campagne e nell’entroterra, dove la componente slava era maggioritaria. Ancora una volta, col crollo degli imperi, i criteri etnico, storico e territoriale entravano in conflitto in maniera apparentemente insanabile. Nel clima di incertezza del riassetto europeo, si trovavano almeno altre due città assai lontane: Danzica contesa tra polacchi e tedeschi, Vilnius tra polacchi e lituani, e anche per esse si decise di non decidere lasciando campo libero agli atti di forza.
A spezzare gli indugi e gli equilibri era stato Gabriele d’Annunzio, tra i principali artefici dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco di Francia e Gran Bretagna, il quale il 12 settembre 1919 con un piccolo esercito di fedelissimi era entrato a Fiume e l’aveva occupata. Era la sua risposta agli scontri di quell’estate tra nazionalità diverse e con le truppe interalleate. Il Vate aveva un prestigio internazionale non solo artistico, ma anche per le ardite imprese concepite e realizzate come la beffa di Buccari (proprio nei pressi di Fiume) e il volo su Vienna; incarnava l’uomo d’azione, fuori da ogni schema, e realizzò il capolavoro di un poeta che si incorona capo di Stato, per quanto avesse proclamato l’annessione all’Italia come voleva la corrente nazionalista di Riccardo Gigante che si opponeva a quella autonomista di Riccardo Zanella. Dopo undici mesi d’Annunzio proclamò la Reggenza del Carnaro (12 agosto) dando anche un corpo costituzionale alla sua creatura polimorfica e sfuggente.
La Carta del Carnaro è uno straordinario strumento di modernità, frutto del guizzo estroso del pescarese e dell’esperienza e delle idee del sindacalista socialista Alceste De Ambris: a Fiume le donne votano, c’è il divorzio, l’istruzione è per tutti, non ci sono divieti morali per l’omosessualità, sembra tutto possibile e raggiungibile. D’Annunzio va fermato, con le buone o con le cattive. Con le buone attraverso il trattato di Rapallo, che il 12 novembre 1920 istituisce lo Sato libero di Fiume, che il Vate ovviamente non riconosce, con le cattive tramite l’esercito che deve risolvere quella grana internazionale che mina il prestigio di un’Italia uscita spossata dalla guerra e preda di torbidi tra i socialisti e il neonato movimento fascista di Mussolini che a parole sostiene l’impresa ma intanto non versa a d’Annunzio i soldi raccolti con una sottoscrizione del Popolo d’Italia che utilizzerà per le camicie nere e per la sua scalata al potere.
D’ANNUNZIO NOME TABÙ
Il Poeta-soldato respinge l’ultimatum del generale Enrico Caviglia e l’epopea fiumana si chiude con le cannonate dell’artiglieria navale contro il palazzo del governo nel Natale di sangue e la battaglia fratricida tra soldati regolari e legionari con una cinquantina di morti. Dopo la parentesi del governo provvisorio, con il trattato di Roma del 1924 si apriva la strada a eleggere Fiume, con i suoi 110.000 abitanti, capoluogo di provincia del Regno d’Italia. Il disastro del 1943 porterà Fiume nominalmente nella Repubblica sociale mussoliniana ma in realtà nell’Operationszone Adriatisches Küstenland sotto ferreo controllo tedesco. Il riflusso determinerà il 3 maggio 1945 l’occupazione dell’esercito jugoslavo. In due anni di occupazione militare la componente italiana sarà duramente colpita senza stare a distinguere tra fascisti e antifascisti, epurati, incarcerati e uccisi sommariamente dall’Ozna, la famigerata polizia politica di Tito. Il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 sanciva uno stato anche di fatto: Fiume passava alla Jugoslavia comunista e diventava Rijeka. L’esodo proseguiva fino al 1948 e marginalmente fino al 1953. Oggi gli italiani censiti a Fiume sono poco più di 2.500, nemmeno il 2% della popolazione. Il nome di d’Annunzio è ancora tabù.