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Caffè al bar? Quello italiano il peggiore al mondo: la sentenza del Gambero Rosso

Caterina Maniaci
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Il migliore caffè del mondo si beve in Italia. No, in realtà sta diventando il peggior caffè venduto e bevuto al mondo. Affermazione forte, quasi da choc. Ma lo dichiara Gamberorosso, famoso e autorevole network di enogastronomia, che presenta un’indagine sul caffè, i bar e tutto il mondo che gira intorno a queste che sono sempre state eccellenze del made in Italy. Eccellenze, sì, ma siamo sicuri che questa sia ancora la realtà? ci si chiede nel proporre l’inchiesta. E la sostanza, in sintesi, è la seguente: tra gli addetti ai lavori è cosa nota, aprire un bar è molto semplice, non servono business plan, capitali da investire e neppure un prestito in banca. Basta rivolgersi a una torrefazione. Ma non bisogna aspettarsi un caffè di grande qualità.

Più in dettaglio, sempre secondo quanto si legge su Gamberorosso.it, il “caffè gourmet” in realtà esiste, ma si calcola che in Italia copra circa lo 0,3% del totale (contro una media globale del 10%). «La verità è che la tazzulella, la nostra gloria, quella che si beve al bar è spesso amara, raffazzonata, sciatta. L’amaro viene da una tostatura scurissima, che in un caffè buono brucia gli aromi, in uno cattivo i difetti, la crema spessa è data da una Robusta di bassa qualità», si legge ancora. Riportando il giudizio di Maurizio Giuli, Direttore Marketing & Comunications di Nuova Simonelli, produttore di macchine da caffè, secondo il quale «l’Italia è primo esportatore mondiale di caffè torrefatto per volumi, ma mentre prima la miscela italiana spuntava un prezzo medio di vendita superiore alla media, da un certo momento in poi ha perso questo vantaggio e anzi adesso il prezzo è sceso sotto la media». Se ne deduce che se un tempo il caffè italiano era un’eccellenza, oggi all’estero è giudicato di qualità medio-bassa. E ce n’è anche per i baristi, spesso improvvisati e privi di vera formazione.

 

 

Ma le cose stanno proprio così? «L’espresso italiano è e rimane il migliore al mondo. Non possiamo metterlo in dubbio. Ma, soprattutto all’estero, se la richiesta principale è quella di un caffè a basso costo, chiaramente la qualità diminuisce, la tazzina di caffè offerta può dunque risultare di livello inferiore», commenta a Libero il conte Giorgio Caballini di Sassoferrato, la cui famiglia ha creato il marchio Dersut a Conegliano, in provincia di Treviso, (uno dei marchi più famosi dell’espresso), presidente del Consorzio di Tutela del Caffè Espresso Italiano, nato nel 2014, e promotore dell’assegnazione del suo riconoscimento quale Patrimonio Immateriale dell’Unesco. Insomma, un’autorità in materia. «La pandemia, poi, ha rappresentato una bella batosta per le torrefazioni, dunque non credo che siano così pronte a sovvenzionare a pioggia bar e locali vari», sottolinea Caballini, «in quanto alla formazione, effettivamente è un aspetto fondamentale; la nostra azienda, ma non solo, propone diversi corsi che ottengono ottimi risultati. Nel nostro Paese esistono molti bravi baristi, direi siamo intorno al 70-80 per cento».

 

 

Fare un buon caffè, comunque, non è affatto semplice e scontato.: «Certamente no. Ricordiamoci che sono quattro gli elementi imprescindibili -le quattro M- per ottenere una tazzina di qualità: miscela, macinadosatore, macchina e mano. La mano, quella del barista, ovviamente, che deve rispettare anche la regola aurea dei venticinque secondi, quelli che servono per far passare un getto di acqua calda sotto pressione». Senza dimenticare il significato sociale, storico, culturale dei caffè, intesi come luoghi fisici: «Il caffè, in Italia, è sinonimo di incontro, di aggregazione, di scambio culturale, di bellezza pensiamo ai meravigliosi locali storici da Nord a Sud – lo è stato, e continua ad esserlo, nonostante i tanti problemi, legati soprattutto ai costi proibitivi della loro gestione». 

 

 

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