Ultima generazione si prende Gucci: blitz a Milano, un finale sconcertante
L’effetto complessivo è quello del tacchino che tifa per l’arrivo del Natale. Oppure, potrebbe essere una pagina del barone Leopold von Sacher-Masoch, colui che eresse l’autolesionismo a perversione codificata. Da ultimo, siamo con ogni probabilità di fronte a un abbaglio di marketing, ma andiamo con ordine. Quel gruppo di eco-svitati convinti seriamente di incarnare l’Ultima Generazione sul pianeta, l’altro giorno a Milano ha dato vita a una delle impavide imprese tipiche della casa: ha dato l’assalto all’Albero di Natale allestito da Gucci in via Vittorio Emanuele.
SIMBOLO CAPITALISTA - In una nota che pareva una parodia gretina del movimentismo anni Settanta, accusavano la «multinazionale» di continuare «ad alimentare un sistema di lusso e di consumo che sta decretando la nostra condanna a morte» (loro, si sa, preferiscono sistemi di autarchia e di miseria, che hanno l’incommensurabile vantaggio di essere a emissioni zero). Per cui hanno vandalizzato a colpi di vernice arancione il demoniaco simbolo del capitalismo.
Prendendosi anche le coccole dei capitalisti in carne e ossa, recapitate tramite comunicato in cui Gucci, pur «condannando inequivocabilmente» il gesto, spiega di aver «scelto di non intervenire e di utilizzare l’incidente come spunto di riflessione collettiva» (e no, purtroppo non s’intende riflessione sull’idiozia umana).
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L’albero dunque non verrà ripulito, la vernice rimane dove l’hanno lasciata i rivoluzionari immaginari prima di dedicarsi al veglione con papà e mammà (immaginiamo non limitato all’ingerimento di bacche del bosco sotto casa), perché la Maison è «da anni attiva nella promozione di un dialogo costruttivo» (aspetto a cui i sequestratori di automobilisti tengono molto) e «conferma così il proprio impegno a sensibilizzare la comunità attorno a questi temi». Quali temi, di grazia: quelli per cui gli estensori del comunicato rappresenterebbero «uno stile di vita scandaloso davanti al divario economico in Italia»?
Quindi ci aspettiamo a ruota un secondo comunicato, in cui i vertici societari annunciano la devoluzione dell’intero patrimonio al Fondo Riparazione dei danni delle catastrofi climatiche, ultima boutade degli eco-pauperisti? Perché se concedi loro le premesse, poi devi seguirli nella loro logica coerentemente suicida del declino, intellettuale ed economico.
Se invece stai agendo con riflesso commerciale, se stai automaticamente traducendo il passatempo green della buona borghesia in fatturato di massa, dovresti ricordarti che la cronaca, prima ancora della storia, è maestra di vita. E la cronaca dice che le grandi aziende le quali recentemente hanno sbandierato la propria adesione ai dogmi del politicamente corretto sono andate incontro a vere e proprie debacle sul mercato, quel nocciolo di realtà spontanea refrattario a entrare nelle gabbie ideologiche. E parliamo di colossi.
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Bud, anzitutto, il (ormai l’ex) marchio di birra più diffuso negli Stati Uniti. Finché non ha avuto la brillante idea di intrupparsi nelle crociate Lgbt, lanciando una campagna con protagonista l’influencer trans Dylan Mulvaney. Risultato: rivolta collettiva dei consumatori conservatori, operai della Rust Belt, cowboy texani, non intossicati dal puritanesimo woke a vario titolo (incredibilmente, non si beve birra soltanto nei ricevimenti sulle coste liberal), emorragia di quasi 5 miliardi di dollari in pochi mesi, crollo del titolo in Borsa, conseguente perdita di un quarto della quota di mercato.
COAZIONE A RIPETERE - La Disney trasformata da fabbrica dei sogni infantili a incubatore delle paranoie buoniste, invece, stando ai report di Bloomberg, ha pagato la metamorfosi predicatoria con un -900 (milioni di euro). Un buco dovuto ai flop in serie del 2023, pellicole realizzate più col bilancino inclusivista che con la stella polare dell’intrattenimento mai abbandonata dal fondatore Walt. Il campionario è andato da una Sirenetta afro ed ecologicamente impegnata (nel film si calca sulla barbara aggressione umana alla flora marina) alla fata madrina di Cenerentola genderless (sostanzialmente, oltre la reazionaria distinzione maschio/femmina) nel live-action con Billy Porter, fino al surreale rifacimento di Biancaneve coi nani sostituti da “creature magiche” per “evitare di rafforzare gli stereotipi” e senza il principe azzurro, ormai in conclamato odor di sessismo per quel bacio all’eroina addormentata. Un’allucinata coazione a ripetere del conformismo politically correct, la cura della propaganda invece che quella del prodotto, che è finita come solo poteva finire: con un disastro imprenditoriale. E Gucci, ad oggi, risulta ancora un’impresa.