La vita (giuridica): un valore assoluto oppure un optional?
Due vicende tra loro diverse propongono lo stesso problema e pongono il medesimo interrogativo: la vita è un valore assoluto o, almeno in certi casi, un semplice optional? La prima è quella della piccola Indi, bambina inglese affetta da una rarissima malattia mitocondriale e condannata dall’Alta Corte di Londra alla sospensione dei trattamenti vitali. A salvarle la vita, a soli 8 mesi d’età, non sono bastati né l’appello di Papa Francesco, né la disponibilità dell’ospedale Bambino Gesù a farsi carico dell’ospitalità, né la decisione del governo Meloni di concedere alla bimba la cittadinanza italiana, né la richiesta del Console italiano di ottenere come giudice tutelare il trasferimento del caso alla giurisdizione italiana, né infine il messaggio della Meloni al Segretario di Stato per la Giustizia del Regno Unito di agevolare il trasferimento ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996. I giudici inglesi, come già in altri casi, hanno deciso che il “migliore interesse” della bambina fosse solo la sospensione del trattamento che la teneva in vita: e ciò contro il parere dei due genitori che si erano opposti al verdetto con tutte le loro forze.
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La seconda vicenda, meno nota al grande pubblico, è quella di una donna nigeriana di 42 anni condannata a 10 anni di carcere per il reato di tratta di esseri umani e reclusa a Torino dal 22 luglio 2022 che vedendosi respingere la richiesta di stare con il figlio, ha cominciato un duro sciopero della fame rifiutando acqua, cibo, ogni tipo di terapia e persino il ricovero d’urgenza. A nulla è servita l’assegnazione a uno speciale reparto, denominato ATSM, ove i detenuti sono sottoposti a un regime di videosorveglianza h24 e ad assidui controlli medici. I radicali italiani hanno tratto spunto per attaccare l’intero sistema «che porta dietro le sbarre persone con problemi psichiatrici, poveri allo stremo, immigrati senza fissa dimora, tossicodipendenti». Tralascio queste ultime affermazioni che comportano valutazioni di altro genere e passo all’analisi degli interrogativi che discendono dai due casi: a) la vita è un valore assoluto o relativo?
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L’opinione è quella del valore assoluto tant’è che il nostro codice penale punisce l’omicidio del consenziente ritenendo invalido il consenso della vittima. Ma allora, perché l’eutanasia che fa degradare la vita al livello di valore relativo soggetto alla libera scelta del titolare? b) i genitori sono i legali rappresentanti dei figli minori, ma allora perché non hanno diritto di essere ascoltati e di opporsi all’uccisione del proprio figlio? c) il sistema in vigore in Italia, che prevede l’accordo con i familiari, il parere di un comitato etico e degli specialisti che seguono il bambino, la possibilità di sospendere le cure intensive solo se accompagnata a una alternativa di cure palliative, non è un modello valido di per sè e meritevole di essere adottato dagli altri Paesi di cultura occidentale cattolica o non? d) il “migliore interesse” per il bambino è quello di essere curato a prescindere dalla possibilità di guarigione senza rassegnarsi ad una mentalità di morte, oppure come in Inghilterra il pragmatismo utilitaristico che ha guidato i giudici di Oltremanica? C’è di che per riflettere, evitando la deriva di una società per molti versi decadente, disattenta, incoerente anche sul tema del più nobile dei valori, quello della tutela della vita umana sempre, ovunque, comunque e ad ogni costo.
Bruno Ferraro, presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione