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Roma, ucraine umiliate e aggredite dalle "pacifiste"

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Pietro De Leo
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Per avere un breve saggio di doppia morale e di concezione disinvolta dell’universalità dei diritti basta leggere questa storia che Libero è in grado di raccontare. Sabato, manifestazione a Roma organizzata da “Non una di meno” contro la violenza sulle donne. Iniziativa nata sulla spinta del dolore collettivo (doveroso) per l’assassinio di Giulia Cecchettin. Però quel che pareva fosse un momento a tutela di un bene universale (la vita, la dignità e il rispetto per la donna) prende dei rivoli ideologici. Non solo per più di una sortita filo palestinese documenta già ampiamente su queste pagine nei giorni scorsi. Ma anche per quel che la signora Lyudmyla Hnatyk racconta al nostro taccuino. Lyudmyla e due amiche, tutte ucraine, decidono di partecipare al corteo. E di farlo portando con sé le bandiere del Paese in cui sono nate. «Era una manifestazione contro la violenza sulle donne. E allora volevamo riportare l’attenzione su quel che le donne ucraine, nei territori invasi ed occupati dai russi, hanno subito dal febbraio 2022 e continuano a subire». Detto per inciso: uccisioni, stupri, rapimenti, violenze di ogni tipo. Quale migliore occasione di una manifestazione a così alto impatto per sottolineare tutto questo? E invece qualcosa va storto.

IL RACCONTO
«Noi cominciamo a camminare nel corteo», racconta Lyudmyla, «e si avvicina un uomo, evidentemente alterato, in mano aveva una canna, si capiva dall’odore. E ci dà contro: «Che c... state facendo con queste bandiere?”». La voce di Lyudmyla, mentre racconta, è decisa ma nello stesso tempo non nasconde il turbamento. «Io», prosegue, «gli ho detto una cosa tipo “che problemi hai?”, ma ad esser peggio è quanto successo di lì a poco». Già, manifestazione femminista, dirà il lettore, dunque sarà scattata la solidarietà femminile. E invece no. Le femministe si sono schierate con il maschio prevaricatore. Il colmo. 

«La maggior parte delle donne che stavano lì attorno ha cominciato a dire: “Voi ucraine state sempre ovunque”. Qualcuna era dalla nostra parte, ma molto in minoranza«. E prosegue, Lyudmyla: «Io ho provato a spiegare le ragioni della nostra presenza, e cioè testimoniare la condizione delle donne ucraine». Niente da fare, la cattiva accoglienza non rientra. Così, ci racconta, siccome le tre donne avevano con sé due figlie, una di 12 e l’altra di 16 anni, «abbiamo deciso che era meglio andar via». Bell’esempio di tutela della libertà, insomma.

«Per me l’Italia è casa», racconta Lyudmyl, «sono qui da 23 anni, e dunque è davvero importante per me far sapere quel che accade in Ucraina. Sto male per le ragazze morte in Italia, così come per quelle che muoiono in Ucraina. La città in cui vive mia zia, lassù, è stata 8 mesi sotto occupazione russa, senti raccontare delle cose orribili». E spiega a Libero, poi, dell’attività di volontariato che svolge insieme alle sue amiche: «Organizziamo raccolte di medicinali o di cibo, che poi inviamo in Ucraina. Oppure produciamo artigianalmente delle candele, utilizzate dalle persone nelle zone di guerra per scaldarsi o per fare luce». Tutto questo, però, al bailamme femminista evidentemente non interessava.

Chissà come la pensa Elly Schlein, presente alla manifestazione. C’è un nodo rimasto intrecciato, però, ed è la presenza delle bandiere palestinesi. «Chiudevano il corteo», racconta Lyudmyla, «e sul camion in testa c’era addirittura una donna musulmana, l’ho capito perché indossava il velo. Perché loro sì e noi no?». Già, bella domanda, troppe volte posta nel mondo dove certe pulsioni ideologiche, ribollenti nell’universo di sinistra, finiscono per sconfinare nel fondamentalismo e dunque nella contraddizione. Prova ne è un’altra vicenda, accaduta qualche giorno fa. Questa rientra in quella triste antologia- che unisce l’Europa agli Stati Uniti - in cui l’attivismo di certi gruppi universitari degenera nell’intolleranza e nella violenza verbale. Proprio nei luoghi dove, invece, il ragionamento e il confronto dovrebbero essere l’humus per la maturazione delle coscienze.

GIOVANI COMUNISTI
Mercoledì scorso, all’Università Tor Vergata di Roma, si è svolto un convegno sull’Holodomor, ovvero alla carestia indotta dal regime comunista russo ai danni degli Ucraini tra il ’32 e il ’33, per punire le opposizioni alla collettivizzazione delle terre. Un genocidio che causò milioni di morti. Ebbene, all’indomani del convegno, in Ateneo sono comparsi dei cartelli del Fronte della Gioventù comunista che bollava di “revisionismo” il convegno, con un invito: «Fuori il nazismo ucraino dall’università». Uno dei relatori, il professor Andrea Romano, in un altro cartello viene bollato come «propagandista del nazionalismo ucraino». Deliri preoccupanti, perché testimoniano come l’ideologia antioccidentale scorra nel midollo del legno verde della nostra società.

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