Milano, 5 minuti in cella per capire la vita infernale di un detenuto
La porta si chiude alle spalle sbattendo e tutto si ferma per un istante - respiro pensiero emozioni - come sospeso nel tempo per poi ripartire all’impazzata e quei 300 secondi - tic tac tic tac - che passerai con due sconosciute in pochi metri quadrati diventano un’eternità mentre il battito del cuore accelerato rompe un silenzio surreale e ti guardi attorno misurando la stanza che è grande quattro passi per due e pensi a come cazzo fanno in sei a viverci e conviverci qua dentro con una sola turca a fianco del lavabo che fa da cucina là nell’angolo e l’ansia sale - tic tac tic tac - e provi a distenderti sul duro materasso blu e quando ti alzi sbatti la testa sul letto a castello sopra dite perché non c’è lo spazio nemmeno per stare seduti e intanto le mura sembrano restringersi e cerchi un appiglio perché tutto è come se girasse - tic tac tic tac - e ogni dettaglio diventa un pensiero triste e rabbioso e quando sta per mancarti il fiato finalmente là fuori senti dei passi che scandiscono gli ultimi secondi, è finita. E la porta si riapre, torni libero. Benvenuti, anzi malvenuti, a “Extrema Ratio”, installazione itinerante di Caritas Ambrosiana esposta in Bim - dove Bicocca incontra Milano, area nel cuore di Bicocca, che propone l’esperienza in una finta cella di carcere fedelmente riprodotta: fine pena dopo 5 minuti, ma il tempo non passa mai.
TUTTO COME NELLA REALTÀ
Quando sei dentro c’è spazio soltanto per le emozioni, quando esci e ti confronti con i compagni di “gabbia” (in questo caso le studentesse Federica e Sara) vieni travolto dalle riflessioni e dal ricordo dei particolari. Perché è tutto come nella realtà - la stanza è stata realizzata nella falegnameria del carcere di Bollate, gli oggetti sono esattamente come quelli in prigione e perfino le scritte sui muri e i disegni appesi sono riproduzioni precise - e prima di entrare ti fanno separare da orologi, cellulari e oggetti personali per entrare subito nel mood.
Adesso, fuori dalla cella e a freddo, vivi di immagini forti, rivedi la porta che si chiude e capisci che tu almeno hai avuto la fortuna di non sentire la chiave che gira togliendoli la libertà, e che all’interno vedevi una maniglia, cosa che in carcere ovviamente non c’è. E poi ripensi all’unica finestra sopra il letto che porta un solo filo di luce che deve bastare per tutti, così come la televisione, che è uno scatolotto con i tasti (altro che telecomando) ricoperto di adesivi e chissà quanti anni avrà.
Lo spazio per gli oggetti personali è ridicolo, in una specie di armadietto alto poco più di un metro (con sopra un ventilatore, privilegio per pochi) ci stanno forse un paio di borse e le uniche mensole sono quelle ricavate dall’ingegno dei detenuti: file di pacchetti (vuoti) di sigarette appiccicati insieme e attaccate al muro. Poi il bagno, una turca con una bottiglia di plastica infilata al contrario per evitare i cattivi odori e la risalita di scarafaggi e topi, e al suo fianco un lavabo che funge da cucina, con un fornellino da campeggio per improvvisare un pasto e un sacchetto di aglio appeso a un chiodo per insaporire gli aromi.
DA GESÙ AL DUCE
Qui, in celle come questa, si racchiude tutta la vita di sei persone quasi sempre di età, religione, ceto sociali differenti - e lo capisci dalle scritte sui muri. A destra, nel cesso-cucina, c’è la sagoma disegnata quasi a grandezza naturale di una donna nuda, sulle pareti vicine ai letti frasi ironiche (“mamma perdonami... paga l’avvocato!”; “-Gesù, +maria”), esistenziali (“Chi galera non prova, la libertà non apprezza”) e politiche (“W il duce”), oltre, ovviamente, a molti riferimenti religiosi come una foto di Gesù, due rosari, un foglio con le “Massime di San Giovanni Calabria”. «Ho cercato di portare una cella fuori dal carcere per far capire a tutti in quali condizioni di sovraffollamento sono costretti a vivere i detenuti. Un modo per far riflettere», spiega Maria Elena Magrin, professoressa di Psicologia Giuridica dell’università Bicocca che ha ideato e curato l’iniziativa in occasione del decennale del polo penitenziario dell’ateneo, di cui è coordinatrice.
«Le reazioni a questa esperienza immersiva sono forti e di ogni tipo: la maggior parte delle persone però si interroga sul perché abbandonare carcerati - spesso giovanissimi alla noia in pochi metri quadrati privandoli così di un presente, che potrebbe invece impegnarli in qualche attività, e un futuro. Il tutto in nome del popolo italiano, quindi noi. Già, perché il carcere ha una fine pena per quasi tutti, quindi a un certo punto si esce e si apre il tema della re-inclusione, di quello che succede dopo». La visita delle finta cella, inizialmente pensata per gli studenti, ora è invece è aperta a tutti e l’installazione “Extrema Ratio” resterà operativa in Bim - dove Bicocca incontra Milano fino al prossimo 15 novembre (ingresso gratuito da lunedì a venerdì dalle 9 alle 18 e sabato e domenica dalle 10 alle 17. Entrata libera da Viale dell’Innovazione 3). Sono cinque minuti della vostra vita che val la pena di investire per capire la (non) vita della maggior parte dei detenuti delle sovraffollate carceri italiane. Tic tac tic tac, in 300 secondi uscirete cambiati.