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Il pensiero unico appartiene agli invidiosi: lo dice un saggio profetico

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Corrado Ocone
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Non si sarà mai sufficientemente grati all’editore Liberilibri di Macerata per la continua proposta, nel suo catalogo, di testi classici del pensiero politico e sociologico, quasi sempre in Italia poco conosciuti perché “irregolari” o comunque non ascrivibili a quella cultura progressista che ha egemonizzato il dibattito pubblico e quindi anche l’editoria nazionale. A questa categoria appartiene sicuramente il libro che il sociologo austro-tedesco Helmut Schoeck (1922-1993) dedicò nel 1968 all’invidia, su cui, fra l’altro, intendeva costruire una vera e propria “teoria del comportamento sociale”. Soprattutto, ancora oggi, nessun libro come L’invidia e la società - come recita il titolo italiano - affronta il tema di questo sentimento tipicamente umano, per quanto spezzo rimosso, in un modo così preciso e circostanziato. In esso i più diversi punti di vista sono fusi in un orizzonte storico e culturale di ampio respiro.

Il volume interseca la mitologia, la cultura popolare, la fenomenologia individuale e sociale del sentimento, fino ad arrivare a proporre appunto una vera e propria teoria. Definita l’invidia come il sentimento di chi desidera far del male agli altri, per una perversa “gioia maligna”, senza che necessariamente ne venga un bene per sé, Schoeck spiega come mai l’uomo tenda a essere invidioso nei confronti di chi gli è più vicino e non, ad esempio, di persone note per chiara fama o ricchezza ma che lui non conosce.

 

 

 

TIMORE E CONFORMISMO

L’invidia è quindi un sentimento che, seppur coltivato nella propria interiorità, ha per sua natura sempre una correlata dimensione sociale. Esso si spiega con quella “contrapposizione commisurante” che Heidegger in “Essere e tempo” dice essere strutturalmente legata all’essere umano e che ci porta continuamente a proiettarci negli altri e nella percezione che essi hanno di noi. L’ invidia si distingue dalla gelosia, con la quale viene spesso confusa, perché in essa è del tutto assente l’idea di possesso.

Quelle concernenti il rapporto dell’invidia con il conformismo e il livellamento sociale della nostra epoca sono forse le pagine più interessanti ed originali del volume. In qualche modo, per l’autore, noi ci conformiamo al pensiero dominante, anche quando non lo condividiamo, per il timore che la nostra eccentricità possa generare il risentimento invidioso degli altri, il quale è distruttivo e autodistruttivo insieme e può infine sfociare nella vendetta.

Straordinarie e anticipatorie sono le pagine che Schoeck dedica al “senso di colpa” dei più fortunati e “felici”, ad esempio di noi occidentali nei confronti dei Paesi in Quando parla del risentimento invidioso come componente essenziale delle nostre società, Schloeck procede sicuro sulla scorta delle intuizioni di autori come Kierkegaard, Nietzsche e Scheler. Il filosofo danese oppone, a livello sociale, le epoche in cui trionfa l’invidia a quelle in cui a dominare è invece, come principio unificatore, l’entusiasmo. «L’invidia consolidata è il livellamento, e mentre un’epoca passionale sprona, innalza e abbatte, esalta e umilia, un’epoca apatica e ragionatrice fa il contrario, soffoca e frena, livella. Il livellamento è una silenziosa occupazione matematica e astratta, che fugge il prestigio».

KIERKEGAARD E NIETZSCHE

Con queste parole Kierkegaard apriva la strada al Nietzsche della Genealogia della morale, che definisce “morale degli schiavi” quella propria soprattutto del moderno pensiero democratico e socialista: una concezione puramente reattiva che, castrando alla base ogni possibilità di originalità e grandezza, favorisce una generale mediocrazia. E soprattutto tarpa le ali a quello spirito “aristocratico” che ha fatto grande l’Occidente e che, in quache modo, Nietzsche intendeva restaurare. Il Novecento, che per molti aspetti più che un “secolo breve” è stato un “secolo rosso”, ha visto all’opera, con effetti distruttivi, proprio l’“invidia sociale” da Nietzsche preconizzata. L’utopia di una società senza invidia si è, d’altronde, palesata tale: è del tutto falso che eliminando le disuguaglianze si eliminino le invidie. Schoeck propone invece una cura più omeopatica: è saggio cercare di canalizzare la sua potenza distruttiva e utilizzarla come una sorta di contropotere nei momenti in cui sembra trionfare un “pensiero unico”. «Francesco Bacone – scrive in conclusione – aveva già capito che nulla è più adatto a provocare e a scontentare l’invidioso di un comportamento irrazionale, dell’abdicare a una posizione che gli è superiore nell’intento di disarmare la sua invidia. Comportarsi come se l’invidioso dovesse dettar legge alla politica economica e sociale equivarrebbe a un suicidio». Come dargli torto? via di sviluppo, di cui abbiamo ampia testimonianza nella cultura woke dei nostri giorni, in primo luogo in quella sua perversa espressione che è la cancel culture.

 

 

 

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