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Torino, il caso-Segre? Lasciamo ai cornuti il diritto alla vendetta

Giovanni Sallusti
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Confesso: mi viene da sedermi dalla parte del torto, ovvero di Massimo Segre, visto che tutti gli altri posti sono occupati. C’è il tutto esaurito sulla riva del fiume di Cristina Seymandi, l’intero arco costituzional-sentimentale schierato in difesa della vittima violata dall’ex futuro marito che ha confuso vizi privati e pubbliche esternazioni (ci sarebbe poi molto da dire su quanto questa visione della donna come panda da proteggere sempre e comunque sia ben poco femminista e molto retrograda, ma transeat).

Ho iniziato assegnando quello che era il ruolo del torto nella citazione brechtiana al banchiere torinese perché, francamente, ha montato una sceneggiata dozzinale. Ha fondamentalmente commesso una bassezza, e se io fossi oggetto di slealtà prolungate, come lamenta lui, non farei mai il favore a chi mi pugnala di trascinarmi in basso. Ragione e torto, tuttavia, sono due termini tribunalizi, al massimo logici, e la vita, quella quotidiana, capricciosa, carnale, insomma l’unica autentica, non è né un processo né un teorema. L’esistenza è sempre questa esistenza, qui e ora, è sempre faccenda del singolo, come obiettava il filosofo Soren Kierkegaard ai colleghi troppo innamorati dei propri sistemi.

 

 

 

Nella vita così intesa, che poi è l’unica che davvero viviamo, esiste anche, e non sarà edificante ma ha una sua perversa necessità, il diritto alla vendetta. Fa parte strutturalmente della relazione con l’altro, a maggior ragione della relazione per eccellenza (anche se non così esclusiva, a quanto pare), quella amorosa. È mai possibile che dobbiamo spiegare tutto, anche l’ultimo scandalo della buona società torinese, col bilancino ideologico, con la ripartizione pigra e preconfezionata dei ruoli in commedia, il maschio bullizzatore, la femmina umiliata e offesa, il patriarcato occidentale (l’unico che oggi non esiste, peraltro) che incombe su tutto, come se ci trovassimo costantemente in una mediocre pièce politicamente corretta, come se vivessimo dentro un inserto di Repubblica? Quello che riguarda Segre e Seymandi è qualcosa di molto più semplice e di molto più complesso, è il dramma di un rapporto a due la cui verità è nota solo agli interessati, e spesso nemmeno a loro.

 

 

 

ASIMMETRIA DI INFORMAZIONI
Chi oggi (e sono in parecchi) invoca la lettera scarlatta dei Buoni, dei Giusti e degli Educati (o degli Ipocriti?) ha un’asimmetria di informazioni rispetto a colui che addita, la quale consiglierebbe meno furore giudicante. Che ne sanno, dei tormenti e delle ferite di Massimo Segre, gliene importa qualcosa, o costui è condannato a priori perché incarna il “sesso forte” (ad osservare la vicenda da fuori nemmeno un po’, tra l’altro)? Il tradimento, sessuale, amicale, professionale, non ha maggiore dignità ontologica della vendetta, proprio perché spesso ne è la causa scatenante. Non c’è nobiltà, da nessuna parte, c’è la vita, imperfetta, pulsante, spesso vicendevolmente stronza.

Estratto da questo calderone ossimorico quel che è inaccettabile a priori, ovvero la violenza (per cui esiste la Legge), è difficile che restino la ragione e il torto, trasparenti e incontestabili. Spesso restano le differenti, a volte contrastanti ragioni che muovono i singoli, e la vendetta è sicuramente una di queste, leggetevi il Conte di Montecristo se non volete risalire a Omero. Post scriptum: nell’ambiguità intrinseca di queste cronache ovviamente sta anche l’allusione di lei a tradimenti uguali e contrari. Fosse così, si eclisserebbe la centralità della vendetta, e resterebbe solamente la tristezza generale, mista alla furberia di lui. Ma, appunto, non lo sappiamo, non lo sapete, perciò giù il ditino, che anche voi vivete qui e ora, anche voi siete Massimo Segre. 

 

 

 

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