Cucina italiana, la cultura si mangia: il compito di tramandare una enorme eredità
La cultura occidentale è nata a tavola. Presso i Greci e i Romani, i nostri progenitori, il banchetto era non solo un’occasione per mangiare insieme e socializzare, ma anche per affrontare in gruppo le questioni più profonde concernenti l’essere umano, i problemi fondamentali dell’esistenza. Attorno al cibo si intrecciavano pensieri e riflessioni. Platone ce ne dà un esempio in quello che è il suo dialogo più famoso: il Simposio o Convivio, in cui i sei amici convenuti fra un sorso di vino e la fragranza di una pietanza provano a definire il più grande dei sentimenti: l’amore. Fra di loro c’è Socrate che assegna all’amore il posto più alto nella gerarchia delle esperienze umane, facendo coincidere lo stesso pensiero con l’eterna tensione a coprire quello iato che separa la nostra vita caduca dalla perfezione a cui aspiriamo.
Eros, egli dice, è figlio di Poros e Penia, povertà e ricchezza. E la filosofia stessa non è sapienza, per noi irrangiungibile, ma amore della stessa, tensione verso di essa. Anche nell’altra grande matrice della nostra cultura, quella cristiana, il cibo è presente in tutta la sua carica simbolica, non è mero nutrimento. Nell’Ultima Cena Gesù ad un certo punto prende del pane e dice ai discepoli: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Poi prende un calice colmo di vino e dice: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. A tavola, attorno al cibo, viene così istituito nientemeno che il sacramento dell’eucaristia.
IDENTITÀ
Dati questi presupposti, ove se non al centro del Mediterraneo, fra Grecia e Magna Grecia, fra Medio Oriente e Italia, poteva trovare alimento, in una tradizione che dura fino ad oggi, la cultura del cibo? E se questa cultura coincide con il nostro stesso essere occidentali, con la nostra identità, quale maggiore dovere ci si pone se non quella di preservarla e tramandarla?
Il padre della lingua e della cultura italiana, Dante, scrisse anche lui un’opera intitolata Convivio, che Francesco Flora definì «la prima prova severa e compiuta della prosa italiana». In essa, il Sommo Poeta si propose di raccogliere le “briciole” avanzate al tavolo dei sapienti e sfamare con esse, cioè di cultura e insegnamenti filosofici, l’uomo che ne era digiuno. Al tavolo vengono allora offerte quattordici vivande, con il pane che le accompagna tutte.
Chi, in un tempo più vicino a noi, ha dedicato ai temi della cultura del cibo, o meglio della cultura come cibo, una colta attenzione è stato sicuramente Tullio Gregory, storico, filosofo di vaglia, accademico dei Lincei e uomo Treccani, gran gourmet. È sorprendente come anche in lui torni il tema del legame stretto fra pensare, mangiare, amare.
Ma, in verità, il suo libro postumo intitolato L’Eros gastromico, che l’editore Laterza pubblicò due anni fa a cura di Gianni Mariani , si segnala per un altro aspetto, veramente centrale. Esso è esplicitato nel sototitolo: Elogio dell’identitaria cucina tradizionale, contro l’anonima cucina creativa. Il volume è un vero e proprio inno alla tradizione gastronomica italiana, che secondo l’autore tende a scomparire per far posto o ad un’anonima cucina cosmopolita e standardizzata, dietro cui operano le grandi multinazionali alimentari e della distribuzione, oppure ad una modaiola “rivisitazione” che è in verità un oltraggio alla sapienza accumulata nei secoli dai nostri avi e che si è riversata nei piatti della nostra tavola. «Se chiedo il bollito – scrive Gregory – non voglio il piatto che richiama concetti di carne bollite, ma un carrello dei bolliti».
IDEOLOGIE
Contro le ideologie globaliste e la cucina fusion, quale miglior antidoto di un identitario piatto della nostra tradizione? L’Italia e l’italianità si preserva, per i motivi che abbiamo detto, anche e soprattutto a tavola. Contro chi vuole omologarci anche in quel che mangiamo e che, in questo modo, vuole depauperarci e impoverirci anche nel pensiero. Perché, ad esempio, dietro certe rigide regole europee, sempre per noi penalizzanti, c’è l’idea di ridurre il mangiare a semplice nutrizione, di annullare quei valori simbolici e culturali che esso contiene.
«A tavola -scrive Gregory- si vive un processo di civiltà che è cultura... fin dalle società primitive la manipolazione degli alimenti non risponde solo al bisogno nutrizionale, ma si colloca in un cosmo intellettuale e fntastico ove si incontrano uomini e dèi, sacro e profano, morti e viventi, caricando il cibo di valori che trascendono la sua natura materiale». Che la cucina italiana sia indice di identità e differenza è poi così evidente che essa propriamente non esiste, ovvero si riduce alle mille cucine tradizionali proprie di ogni regione, provincia e borgo. Quasi a testimonianza del valore che hanno le comunità locali come serbatoi di senso e pensiero, come esaltazione della libertà e creatività umana. Una identità plurale quella italiana che dobbiamo difendere a denti stretti. Ne va di mezzo non la nostra sopravvivenza materiale, ma appunto la nostra stessa umanità.