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Chico Forti, una lettera drammatica: "47 gradi in cella. Incubo di 23 anni, come Libero"

Alessandro Dell'Orto
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È l’estate del 2000 - la Lazio ha appena vinto lo scudetto, Putin è stato da poco eletto Presidente della Russia, la Piccola Orchestra Avion Travel ha trionfato al Festival di Sanremo e Papa Giovanni XXIII sta per essere beatificato -, quando Chico Forti viene condannato all’ergastolo in Florida con l’accusa di omicidio. Ed è l’estate del 2000 anche quando Vittorio Feltri, sorprendendo e stravolgendo il modo di fare informazione, fonda il quotidiano Libero. Già, ventitré anni fa, quasi una vita. Nel frattempo il mondo è cambiato, l’editoria si è trasformata e il giornale è cresciuto. Per Chico, invece, è rimasto tutto uguale, tutto dannatamente fermo: l’ex imprenditore di 64 anni è ancora rinchiuso in carcere (attualmente nel Dade Correctional Institution di Florida City) per l’omicidio di Dale Pike - figlio di Anthony Pike, dal quale l’italiano stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza-, dopo essere stato accusato senza indizi, essere stato giudicato senza difesa, essere stato dichiarato colpevole senza vere prove. Sì, incastrato proprio in quel lontano 2000.

«Ventitré anni fa Vittorio Feltri battezzò Libero un quotidiano fresco di nascita, ma atavico di concetto - ci scrive Chico Forti dal carcere in occasione dell’anniversario -. L’intero staff editoriale merita di celebrare questa ricorrenza perché così, di fatto oltre che di nome, dovrebbe essere ogni strumento d’informazione. Libero da ideologie ed interessi economici. Libero di “opinionare”, così come ogni lettore è libero di opinare. In 23 anni questa parola ha assunto per me un significato esistenziale, rappresenta un diritto fondamentale che mi trova temporaneamente alla periferia del termine “inalienabile”. Chapeau a chi come voi si batte perché tale diritto venga preservato; nel mio caso, reinstallato. Scrivervi descrivendo le mie condizioni, le mie emozioni, i miei sentimenti, corrobora la mia resilienza, alimenta il mio patriottismo.
In un oceano d’indifferenza Libero è la vela sulla zattera della mia gratitudine».

 

CALDO INFERNALE 

Chico si apre, si racconta. Con sofferenza, ma senza mai perdere fiducia. Descrive la sua difficile vita in uno stanzone caldissimo («la temperatura nel mio dormitorio casermone oggi, con l’effetto umidità, ha superato i 47 gradi: da far sudare un cactus. Il cemento del pavimento esterno tocca i 65 gradi, la maniglia della porta esterna 80 gradi!») grande come un campo da tennis in cui vive con altri 67 detenuti. Ma soprattutto, descrive la gioia di avere un nuovo amico, dopo che lo scorso aprile gli hanno tolto Java, il Golden Retriever di quasi due anni mesi che addestrava da 6 mesi.

«Uno è il mio settimo Golden Retriever- ci scrive- . Lui mi guarda con quei suoi occhioni laser, proporzionalmente alla sua stazza, grandi come i miei. Java interpretava le mie frasi prima di pronunciarle, Uno capta le mie intenzioni, i miei sentimenti, le mie emozioni: è la mia terapia, mi confido, mi consulto e lui ribatte senza emettere suono, con la sua “uno-ica” espressione che di canino non ha nulla. Uno ha decisamente forzato la zampa quando, al suo arrivo, oltrepassata l’entrata, si è accampato ai miei piedi, irremovibile. Da quando ho lui al mio fianco, penso molto meno a Java: quest’ultima settimana non ne ho sentito la mancanza». Amore e amicizia, il rapporto di Chico con i nuovo cane è intenso. «È un valedictoriano, propenso ad apprendere più di ogni altro cane nel programma. Quanto Uno ha appreso in dieci giorni, Java lo aveva raggiunto in un mese... Lo fa col desiderio di accontentarmi, senza doverlo allettare con bocconcini, lo fa solamente per sentirsi premiato con un: “Bravo, ben fatto! ” accompagnato da un carezza su quel suo bel muso».

E ancora: «Se fingo una caduta, Uno corre a cercare un bastone nascosto, per poi portarmelo, rimanendo al mio fianco, offrendomi il dorso a sostegno per rialzarmi. Quando ha fame mi dà la zampa sinistra tre volte, fino a quando io gli dico: “bring me the bowl” (portami la ciotola) e lui, come un razzo, la va a recuperare sopra la sua cuccia. Col naso muove l’interruttore che accende la luce, non inizia a mangiare fino a quando gli do il permesso, alla mensa si infila sotto al tavolo senza supplicare del cibo, nel camminare a comando mantiene una posizione specifica sia in movimento che statico, mantiene un oggetto in bocca senza danneggiarlo fino al mio comando di rilascio, una volta datogli il comando “Stay”, Uno rimane più irremovibile di un marine, fino alla mia liberatoria. La verità è che io, pur essendo il meno esperto degli addestratori, supplisco riversando affetto, riuscendo non di rado ad ottenere risultati simili a quelli del nostro capo addestratore di 80 anni, 60 dei quali trascorsi insegnando ai cani. A riprova di quanto spesso si ottenga più con un sorriso ed una parola gentile che con una lamentela».

 

NUOVI ELEMENTI

Già, il sorriso che non manca mai a Chico, anche se l’incubo è sempre più pesante. E lui lo descrive con grande efficacia. «Questi 23 anni li ho vissuti in una dimensione surreale, un po’ sogno, un po’trance. Ad occhi aperti vedo scorrere la mia vita, incapace d’alterarne il corso. Una vita dove l’unica inalienabile libertà (assolutamente apprezzata, per carità) è poter utilizzare la mente, fortunatamente ancora lucida, poter esprimere per iscritto i miei pensieri “chainless”, ovvero liberi da catene». Chico non molla. Lotta. Si aggrappa alla speranza e ad alcune importanti novità. «Ho passato 23 anni rinchiuso in una gabbia arrugginita, riflettendo sulle evidenze inconfutabilmente a mio favore: il fratello della vittima, Bradley, si è battuto e continua a battersi: ha scritto personalmente sia al Presidente degli Stati Uniti che al governatore della Florida perorando senza mezzi termini la mia esonerazione e liberazione». Non solo. «Altro elemento di monumentale importanza - scrive ancora Chico per una valutazione morale, se non giuridica, è la spontanea dichiarazione di Veronica Lee, la giurata che dopo 20 anni ha amorevolmente trovato il coraggio di confessarsi pubblicamente, piangendo disperata per aver permesso ad altri giurati interessati d’intimidirla, bullizzandola, forzandola a concordare un verdetto in cui lei non credeva».

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