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Talidomide, il farmaco tedesco provoca disabilità: esplode lo scandalo

Claudia Osmetti
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Il talidomide. Il contergan e il distaval. Che ai millennians non diranno niente, ma a chi ha qualche anno in più evocano paure d’altri tempi. D’altri anni. I Cinquanta e i Sessanta. C’è anche un’espressione, i “talidomidici”, che sta a indicare quelle quasi settecento persone nate in Italia con gravi difformità agli arti (intorno ai 10mila i casi accertati nel mondo) perché le loro madri, durante la gravidanza, avevano assunto un farmaco, brevettato nel 1954 dalla casa farmaceutica tedesca Chemie Grünenthal, per ridurre le nausee e i fastidi della gestazione. Funzionava no, il talidomide. O meglio per funzionare funzionava (pure meglio dei barbiturici che allora erano l’unica alternativa), però il suo principio attivo poteva avere effetti collaterali molto seri sui feti e sugli embrioni. Venne ritirato dal commercio alla fine del 1961, nel frattempo era stato commercializzato in circa cinquanta Paesi e oggi viene impiegato solo come medicinale chemioterapico. Ma restano loro, quella marea di centinaia di bambini (oramai adulti) affetti da focomelia, cioè dalla malformazione delle braccia e delle gambe, che non si sono sviluppate del tutto o si sono sviluppate solo in parte. E che adesso hanno deciso di rivolgersi alla Germania, via Unione Europea, per avere un indennizzo.

Sono in 142 quelli che hanno dato mandato a due avvocati bolognesi, Marco Calandrino e Alberto Marin, per presentare al Parlamento europeo una petizione, per chiedere giustizia e ottenere un risarcimento. Mezzo secolo dopo, ma non importa. Perché (per loro) è stato mezzo secolo di sofferenze e privazioni, di «dolori debilitanti cronici» (lo scrive una risoluzione europea del 2016) e di «esigenze sanitarie non soddisfatte» (parola di alcune relazioni indipendenti realizzate in Germania e nel Regno Unito).  «Non ci rivolgiamo all’Italia, perché lo Stato italiano la sua parte l’ha fatta prevedendo gli indennizzi», spiega Calandrino, «ci rivolgiamo alla Germania perché tanto il governo tedesco quanto la ditta stessa che brevettò il talidomide non effettuarono controlli adeguati». Si parla tanto di scienza, il Covid ci ha insegnato che ce la può salvare, la pelle: però il processo di industrializzazione dei farmaci è un iter preciso, puntuale, fatto di verifiche e di analisi. Quelle che sono state fatte per il vaccino anti-sarCov2, quelle che «negli Stati Uniti la dottoressa Frances Oldham Kesley impedì l’autorizzazione del talidomiche perché non era soddisfatta dei test sul principio attivo», continua il legale, e venne anche premiata dal presidente John Kennedy «per aver impedito una grande tragedia» sul suolo americano.


Da noi è andata diversamente. Ed è andata diversamente anche in Germania (oltre 2.700 casi segnalati), in Inghilterra (altri cinquecento), in Spagna (duecento) e in Svezia (un centinaio). È andata che si sono avuto pure aborti spontanei e morti fetali endouterine dopo la 22esima settimana di gravidanza. «Prima di rivolgerci all’Europa», ammettono gli avvocati italiani all’edizione bolognese di Repubblica, «abbiamo fatto tentativi scrivendo direttamente alla Germania e alla Grünenthal»: ma al di là di qualche risposta formale, seppur cortese e ci mancherebbe il contrario, non sono riusciti a ottenere niente. E questo nonostante qualche anno fa la ditta tedesca abbia inaugurato una statua dedicata a quei bambini focomelici, monumento creato a mo’ di scusa planetaria. «Alla mia richiesta di fare qualcosa di concreto per le vittime mi hanno risposto che le loro erano scuse morali e non giuridiche», specifica Calandrino. Insomma, una mano sulla coscienza ma non sul portafogli. E adesso i 142 italiani si rivolgono alla commissione per le Petizioni dell’Europarlamento con l’obiettivo di formulare una proposta di risoluzione che assegni loro «un congruo sostegno finanziario, così da risarcire quanto hanno ingiustamente subito sin dalla nascita e che serva a migliorare la loro qualità della vita». Questione di responsabilità, oltre che di giustizia. E qualora il Parlamento di Bruxelles non dovesse dare una risposta favorevole (nell’arco di qualche mese), Calandrino e Marin sono decisi ad alzare il tiro: «Ci stiamo preparando», chiosano, «a fare istanza alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo». 

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