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Ecoteppisti? Per loro la vera condanna sarebbe farli lavorare

Iuri Maria Prado
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Io pur essendo contrario al carcere vedrei bene una sana eccezione per gli imbecilli che si dedicano a sporcare le cose d’arte e monumentali e anche solo le proprietà altrui, anzi a guardar bene non andrei nemmeno contro alla mia impostazione abolizionista perché la galera è pur necessaria in qualche caso, e cioè per isolare i soggetti pericolosi: e questi sono pericolosi. Ma forse per simili coglioni ci sarebbe un rimedio più efficace e per loro più temibile, cioè sottoporli all’esperimento di un’attività perlopiù ignota in quel milieu: lavorare.

 

 

 

Perché basta vedere in faccia l’esponente medio di questi teppisti per capire che non è gente con il culto della fatica e con l’esigenza di provvedere autonomamente a mettere in tavola. Dice: ma tu generalizzi.

 

 

 

Sì. E, generalizzando, generalizzerei l’applicazione di una buona dose di lavoro agli imbrattatori, il cui vandalismo non è nemmeno figlio di un’ideologia detestabile, come si dice, ma di un costume: non avere nient’altro da fare e rompere le palle agli altri. Il fatto che annuncino renitenza al pagamento delle multe non costituisce la prosecuzione del loro malinteso ribellismo, ma ancora una volta la rivendicazione del diritto acquisito di non piegare la schiena davanti alle esigenze della vita, prima tra tutte quella di guadagnare ciò che si consuma e di ripagare ciò che si rovina. La vernice sui graniti e sui marmi dei nostri palazzi e la brodaglia nera nelle fontane non sono il lavabile allarme per il pianeta inquinato, come dice la retorica eco-stronza che tira al voto di quei prepotenti: sono la ricreazione del reddito da divano, il trastullo dei giovanottoni accasati nella Repubblica fondata sul lavoro degli altri. Bisognerebbe redistribuirlo un po’, il lavoro, cominciando dai babbei della giustizia climatica.

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