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Parmigiano e pizza nel mirino: ai marxisti non piace il cibo made in Italy

Attilio Barbieri
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Nella settimana in cui il governo ha candidato la cucina italiana a patrimonio immateriale dell’umanità, è arrivato un attacco frontale al nostro made in Italy a tavola. Il quotidiano britannico Financial Times ha dedicato un lungo articolo al tema, dando voce ad Alberto Grandi, professore di storia del cibo all’Università di Parma, ma soprattutto nemico dichiarato delle nostre tradizioni. Il titolo non lascia dubbi: «Tutto quello che io, un italiano, pensavo di sapere sul cibo italiano è sbagliato». E per fugare ogni dubbio ecco la sintesi del contenuti: «Dal panettone al tiramisù, molti classici sono in realtà invenzioni recenti, come ha dimostrato Alberto Grandi».

E in effetti per il professore mantovano, classe 1967, l’attacco alle tradizioni alimentari italiane è una missione. Nel 2018 pubblica con Mondadori il libro Denominazione di origine inventata, con un sottotitolo che suona come un attacco al nostro sistema produttivo: «Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani». Il Financial Times ripercorre i cavalli di battaglia del volume. Ce n’è per tutto e tutti.

 

 

 

PIZZA AMERICANA

La pizza, ad esempio, che Grandi definisce «disco di pasta condito con ingredienti», sarebbe più americana che italiana e «il primo ristorante a tutti gli effetti che serve esclusivamente pizza non» sarebbe «stato aperto in Italia ma a New York nel 1911», chiosando: «Per mio padre negli anni '70, la pizza era esotica quanto lo è il sushi per noi oggi». A Mantova, forse. Ma a Milano, negli anni Sessanta, di pizzerie ce n’erano diverse. In centro come in periferia. Ricordo, per averla frequentata con i miei genitori, la Pizza Pazza dove i «dischi di pasta conditi con ingredienti», erano la normalità per i milanesi. Senza contare che Francesco de Sanctis, ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II, scrittore e autore di una Storia della letteratura italiana che ha rappresentato una pietra miliare per decenni, riferisce nelle memorie di giovinezza, che già nei primi decenni dell’Ottocento, a Napoli, erano aperte le prime pizzerie.

«La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità», scrive de Sanctis. Era il 1833, anno in cui a Largo della Carità apre il locale Le Stanze di Piazza Carità, tuttora operante come Pizzeria Mattozzi. Ma nel 1738, aveva aperto la Pizzeria Porta d’Alba, dotata di sedute dal 1830. Dunque la pizza si mangiava in locali dedicati oltre due secoli fa e non veniva «fatta e mangiata per strada dalle classi meno abbienti», come fa dire a Grandi il Financial Times.

Non meno discutibile la ricostruzione del professore mantovano sul Parmigiano Reggiano, la regina delle nostre Dop (Denominazioni d’origine protetta). Secondo lui il Parmigiano ha sì una tradizione millenaria, ma ad interpretarla fedelmente sarebbero i pochi formaggiai del Wisconsin che lo producono tuttora con una crosta nera e non i casari italiani che fanno forme con la crosta chiara e dal peso di 40 chilogrammi, anziché i 10 del Parmigiano medioevale. Una evoluzione naturale per un prodotto di cui riferisce nientemeno che Giovanni Boccaccio nel Decamerone e di cui c’è traccia in un atto notarile redatto a Genova nel 1254, che parla del caseus paermensis, il formaggio di Parma. Per di più il Parmesan prodotto dai grandi taroccatori del Wisconsin cerca di assomigliare il più possibile all’originale che si fa nelle province di Parma, Reggio e Mantova. Ha la medesima pezzatura e la crosta, priva della stampigliatura Parmigiano Reggiano, è ugualmente chiara.

 

 

 

UN SECOLO NON BASTA

Ma ce n’è anche per il panettone, colpevole di essere stato reinventato nella sua formulazione attuale da Angelo Motta nel 1919, e per il tiramisù, apparso per la prima volta nei libri di cucina degli anni Ottanta - segnala Grandi - anche se le prime ricette risalgono al ’70 .E si tratta di due dolci senza alcuna denominazione. A dare la chiave di lettura migliore del lavoro di Grandi è probabilmente l’autrice dell’articolo uscito sul Financial Times: «La sua missione», scrive Marianna Giusti, «è distruggere le fondamenta su cui noi italiani abbiamo costruito la nostra famosa e notoriamente inflessibile cultura culinaria». Una missione, quella di demolire le tradizioni alimentari italiane, che «l’accademico marxista» (a definirlo tale è il Financial Times) condivide con l’amico Daniele Soffiati, segretario della Cgil mantovana, con il quale ha dato vita a un podcast, intitolato “Doi, Denominazione di origine inventata”. E Grandi non nasconde la simpatia per Eric Hobsbawm, lo storico britannico dichiaratamente comunista, autore del volume L’invenzione della tradizione. Alla fine tutto torna. 

 

 

 

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