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Milano, nella moschea clandestina si celebrano i terroristi

Andrea Morigi
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Nella moschea sciita milanese, luogo di culto mascherato dietro la sigla Centro Culturale Imam Alì, si fa l’apologia di un «martire» ucciso dai «nemici dell’islam, gli Stati Uniti e il sionismo internazionale». Così li definisce Hosseyn Morelli, il segretario dell’Associazione Islamica Imam Mahdi, presentando la biografia di Qasem Soleimani, un combattente di Dio.

In Iran, nel corso delle proteste che si stanno susseguendo da sei mesi a questa parte contro il regime degli ayatollah, i ritratti di Soleimani bruciano perfino meglio di quelli della Guida della Rivoluzione islamica Ruhollah Khomeini e del suo successore, la Guida Suprema Alì Khamenei.

C’è una buona ragione, spiegano i giovani che protestano dinanzi al portone del alla periferia di Milano: in patria l’ex comandante della Forza Al Quds dei Pasdaran è chiamato «cotoletta» perché il 3 gennaio 2020 fu carbonizzato da un drone americano all’aeroporto di Bagdad. Fu l’unico atto di guerra degli Stati Uniti mentre Donald Trump era alla Casa Bianca, ma quel colpo andò a segno.

 

 

Anche dal punto di vista propagandistico. Vedendo abbattuto uno dei pilastri del regime, da allora la popolazione ha via via riacquistato fiducia nella possibilità di un cambiamento politico. Al di fuori dei confini della Repubblica islamica c’è qualcuno su cui contare. Magari anche per «inserire i Guardiani della Rivoluzione nell’elenco europeo delle organizzazioni terroristiche» e bloccare «qualsiasi tipo di rapporto economico e politico con i pasdaran che hanno preso il controllo delle attività economiche e politiche del Paese», afferma Behnoud (Benny), esule iraniano naturalizzato italiano, che sventola il vessillo pre-rivoluzionario della Persia durante il presidiodi protesta. Vi sono rappresentate varie anime dell’opposizione, compresa una minoranza di attivisti di sinistra. Sono assenti i Mujaheddin e-Kalq, rivoluzionari comunisti che hanno come simbolo la falce e il fucile e utilizzano l’Italia come ponte per l’Albania, loro base logistica. In ogni caso i dissidenti iraniani, almeno a Milano, sono di gran lunga più numerosi dei sostenitori del regime che, mentre si recano alla moschea, si vedono ironicamente offrire cotolette in ricordo della combustione del guerriero islamico, la birra severamente proibita da Maometto e la Coca-Cola simbolo degli odiati yankee.

«Donna, vita, libertà», lo slogan che dalle piazze di tutto l’Iran, riecheggia fino alla sala tappezzata di iscrizioni coraniche. Donne velate e imam con il caffetano, tutti rigorosamente scalzi, cercano di coprire le voci esterne con la cantilena straziante dei versetti del loro libro sacro. Celebrano 44 annidi permanenza al potere nella figura del loro eroe Soleimani. Il console di Teheran a Milano, Daryoush Soulat, se la prende con i giornalisti (anzi, con «uno scrittore») che nell’attuale «atmosfera avvelenata» hanno «tentato di deviare il significato di questa presentazione». Da lì a lanciare una fatwa di morte come nel caso di Salman Rushdie, la strada è breve. Il diplomatico lancia minacce velate, benché consapevole della presenza di un cronista fra l’uditorio, contro «i media che cercano di soffocare ogni voce del diritto e della verità» e di «annientare il movimento verso la verità e la giustizia». Qualcuno si è permesso perfino di infangare Soleimani come «il capo dei terroristi del mondo», lamenta Morelli, quando si trattava invece di «un autentico mistico».

 

 

Gli epicedi pubblicati nella biografia, scritti di proprio pugno dai capi di note organizzazioni terroristiche islamiche quali i libanesi di Hezbollah e le palestinesi Brigate Izzedin el Qassam parrebbero la dimostrazione del contrario. È comunque la jihad interiore che conta, dicono, quella condotta «contro le proprie passioni». Proseguendo con le tipiche espressioni di taqiyya, la dissimulazione consentita ai musulmani allo scopo di sfuggire alla persecuzione, si può anche sostenere che Soleimani ha combattuto il terrorismo, sotto le apparenze dello Stato islamico. Anzi, lo shaikh Abbas Di Palma è addirittura convinto che l’incolumità degli italiani, minacciata dall’Isis, sia stata preservata dall’ex capo delle Brigate Al Quds, mentre qui nessuno si ergeva a difesa della Patria. Insomma, dovremmo pure ringraziarlo e perpetuarne la memoria, invece di «demonizzare» lui e l’islam. Alle studentesse avvelenate o accecate, ai manifestanti incarcerati, condannati a morte e impiccati, non si accenna nemmeno di striscio. È ammessa solo l’agiografia del boia. Anzi della cotoletta.

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