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8 marzo, se lo sciopero femminista è una beffa per le ragazze: ma quale "parità"...

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Brunella Bolloli
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Tu chiamale, se vuoi, contraddizioni. Lottare per i diritti, farsi sentire, uscire dalla logica dell’angolo. Esistere. L’onda rosa deve arrivare e, adesso, per fortuna, sta arrivando anche in Italia, ma sulle modalità della rivendicazione, sugli strumenti per metterla in atto, siamo tornate indietro. Per le femministe di “Non una di meno” l’unico modo è scioperare, bloccare le città e chi se ne importa delle donne che invece oggi devono andare a lavorare, delle pendolari che si fanno un’ora sui treni locali per raggiungere l’ufficio, delle mamme costrette a fare i salti mortali nel traffico per andare a recuperare i figli a scuola, delle badanti e delle caregiver a ore per le quali non esiste smartworking e un giorno senza paga a causa di uno sciopero significa tanto. 

Di chi è costretto, comunque, a recarsi al lavoro. A costoro le ragazze “in fucsia” non pensano, convinte che l’unico strumento per «portare avanti la lotta» sia la solita manifestazione che da sette anni organizzano per l’8 marzo, giornata internazionale dedicata alla donna. Stavolta, poi, lo slogan parla chiaro. Dice: “Sciopero transfemminista. Se ci fermiamo noi si ferma il mondo”. Che è pure vero, ma a metà settimana crea soltanto disagi e non risolve i problemi, casomai li aumenta.

Intendiamoci: la parità con i colleghi maschi, in molte professioni, è ancora un miraggio: secondo il Global Gender Gap Report bisogna attendere 132 anni per raggiungerla a livello mondiale, che diventano 60 per noi fortunatissime europee. Gli ostacoli ci sono ancora e tocca imporsi per rimuoverli puntando sulla tenacia e sullo studio come solo certe ragazze sanno fare. Ci sono i pregiudizi, le incompatibilità tra vita privata e lavorativa, la maternità che spesso costringe, in alcuni settori, ad abbandonare sogni di gloria (leggi leadership). Resistono certi pregiudizi e una disparità di trattamento economico che avvantaggia gli uomini a scapito delle colleghe pur in presenza di medesime mansioni e ruoli.

Però le femministe di “Non una di meno” (strette parenti delle compagne di “Se non ora quando”) non vanno in piazza sventolando i dossier sul gender gap, non chiedono di essere riconosciute al vertice di qualche board dopo avere conseguito tre lauree, phD e master internazionali. Non sono super manager con titoli snobbati dai capi che rivendicano, giustamente, la considerazione che meritano. Sono rappresentanti di varie realtà della galassia femminile e femminista, giovani amanti dell’asterisco che va bene per ogni genere e della schwa, che fa tanto intellettuale politically correct. E la manifestazione di oggi sarà senza dubbio vivace e affollata, almeno nelle principali città, ma come al solito, strumentalizzata. Con i sindacati contenti di fermare autobus, tram, treni.

È uno sciopero contro la guerra, il disastro ecologico, l’inflazione ma anche contro l’ideologia “Dio, patria e famiglia” del governo Meloni e contro ogni forma di disciminazione e di razzismo. È uno sciopero per reclamare un aborto libero e gratuito, un reddito di autodeterminazione, un welfare pubblico e universale, per la libera circolazione delle persone fatto insieme «alle donne curde, afghane e iraniane e alle donne che in tutto il mondo stanno lottando per una vita libera dall’oppressione».

A Roma il corteo arriverà a viale Trastevere, guarda caso sede del ministero dell’Istruzione di quel cattivone di Valditara. I cartelli esposti denunceranno, tra l’altro, programmi scolastici «patriarcali e bigotti» da cui è assente l’educazione sessuale e affettiva. Davanti al palazzo dell’Acea ci sarà un’azione «di lotta» in segno di solidarietà «con le dipendenti «vessate». Non mancherà «una performance collettiva di denuncia» per ricordare le vittime del naufragio di Cutro e infine un flashmob che avrà come tema «la sottrazione dallo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo». Nel capoluogo lombardo i cortei saranno ben due. Tradotto: centro bloccato. A Torino le attiviste saranno in piazza affinché l’8 marzo «non sia il giorno delle mimose e dei proclami istituzionali, ma sia una giornata di lotta». Una sfilata femminista che rischia di essere un po’ fuori tempo e anche fuori moda. Meloni, Schlein, Cartabia, Belloni, Cassano: il soffitto di cristallo ormai si è infranto. E senza bisogno di grandi parate.

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