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Cutro, la lezione del sindaco Ceraso: italiano vero contro politici falsi

Fausto Carioti
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Hanno riempito giornali e notiziari televisivi con un modello unificato di Italia migliore. Quella che scende in piazza per dire che «la scuola è libera perché antifascista». Che citando Antonio Gramsci si vanta di non essere «indifferente» (il fondatore del Pci li odiava, gli indifferenti). È la stessa Italia che non vuole dire l’altra parte della verità: per essere libera, la scuola deve essere anche anticomunista. È l’Italia che resta indifferente se nella piazza in cui sfila si alza il coro «uccidere un fascista non è reato». Indifferente dinanzi alle violenze degli squadristi rossi di Torino e alle invocazioni di una nuova piazzale Loreto. È l’indifferenza della complicità. Del resto: se davvero «chi decanta il valore delle frontiere», come ha scritto agli studenti la preside del liceo Leonardo da Vinci di Firenze, sta costruendo un nuovo regime, coerenza vuole che lo si affronti con i metodi dei partigiani, i quali usavano armi e violenza (quello della resistenza pacifista è un filone di narrativa fantastica inventato dall’Anpi).

 

 

 

Eppure, anche se è solo di questa Italia che si parla, perché così conviene alla nuova leader del Pd, essa non è l’unica. E nemmeno è l’Italia che manda avanti il Paese: semmai lo radicalizza e lo spacca, mentre prova ad ingrossare le proprie truppe raccontando del nemico che avanza in fez e stivaloni neri. C’è un’altra Italia, per fortuna. Che non va in piazza a strillare, non augura la morte all’avversario politico, non è pop e nemmeno si atteggia a maggioranza, anche se lo è. È l’Italia dei borghesi dipinti da Leo Longanesi: coloro che «si ostinano a credersi i custodi di quell’ordine che, bene o male, regge ancora il paese».

 

 

 


Ci sono anche nello Stato, personaggi così. Che tra il senso del dovere e il consenso facile, per insondabili motivi scelgono il primo. Ne abbiamo appena visti due. Il sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, avrebbe potuto fare come il suo collega di Crotone, che dopo il naufragio del barcone ha attaccato il governo. Invece ha voluto parlare per difendere la figura istituzionale su cui la sinistra e i suoi giornali sparano: «Il pomeriggio di quella domenica Piantedosi era già a Crotone, non vedo cosa abbia potuto scatenare la polemica. Si è comportato ottimamente».
Di una pasta simile è fatto il preside del liceo Carducci di Milano, Andrea Di Mario. Ha condannato lo striscione apparso davanti alla sua scuola: «Un gesto brutale, brutto, violento e pesante». E si è impegnato ad individuare e perseguire i responsabili. Lo ha fatto sapendo che potrà averne solo rogne. Saranno anche una minoranza, gli alunni e gli insegnanti che apprezzano l’idea di appendere a testa in giù Giorgia Meloni e Giuseppe Valditara, ma è una minoranza che si muove in branco ed è abituata ad usare la violenza fisica e verbale. Tra qualche tempo si parlerà ancora della preside del Leonardo da Vinci, iconcina progressista che pare già pronta per una candidatura nelle liste del Pd (non sfigurerebbe, ci hanno messo di peggio), e nessuno ricorderà il preside del Carducci. Ma, tra i due, il coraggio di andare controcorrente perché è la cosa giusta fare l’ha avuto solo uno, e non è lei. 

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