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Sanremo spazza via il Covid: "I gufi avevano torto", la sentenza di Vaia

Pietro De Leo
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«Sa che le dico? Ho guardato la platea del Festival di Sanremo dove tutti stavano insieme e senza mascherina e ho pensato: “Viva l’Italia!” Voglio dirlo, in un senso quasi liberatorio». Non nasconde entusiasmo il professor Francesco Vaia, luminare della medicina, e direttore generale dello Spallanzani di Roma. È stato uno dei volti della scienza – nel campo, però, di quelli ragionevoli e non “chiusuristi” per dogma - durante i mesi più duri della pandemia Covid. Nella domenica post sanremese parla con Libero di quel che può contenere un’immagine.

L’istantanea è quella, appunto, del pubblico di Sanremo senza mascherina. Cosa ci insegna?
«È la dimostrazione plastica che abbiamo lavorato bene. Il Paese si è comportato bene in tutte le sue componenti. È stata un’azione virtuosa collettiva che ha unito popolo, istituzioni e scienza. E ovviamente il sistema sanitario, a proposito del quale oggi, a maggior ragione, dobbiamo riflettere su come valorizzare, far crescere e pagare meglio tutti gli operatori. Da Sanremo arriva l’immagine del Paese che rinasce. Diciamolo: siamo stati bravi».

Eppure l’allentamento delle misure, definito qualche giorno fa dal governo Meloni appena entrato in carica, era stato un punto di grandi polemiche. C’era chi preventivava sfaceli e nuove drammatiche ondate.
«Catastrofismo un tanto al chilo da parte di qualcuno. Noi, al contrario, abbiamo fatto presente al governo come non fosse più necessario tenere gli italiani legati a delle misure che non avevano alcun senso. Abbiamo avuto ragione. E i gufi hanno perso».

Perché, oggi, gli italiani sono protetti?
«È il combinato disposto di due fattori. Da un lato l’alto tasso di vaccinazione. Dall’altro un virus che, mutando, è diventato più contagioso, dunque ha circolato di più, ma è molto meno patogeno. La somma di questo è l’immunità ibrida».

Quindi, il Paese è rinato dal Covid 19.
«Ecco, errore. Non dobbiamo più parlare di Covid 19, ma di Covid 23, siamo in un altro mondo».

Spieghiamo.
«Oggi chi prende il Covid contrae una malattia che colpisce le vie superiori, dunque tosse, raffreddore, quasi mai con polmonite. A meno che non si tratti di soggetti molto anziani o con altri tipi di patologie».

Siamo in un altro mondo, lei dice. Ci siamo buttati alle spalle l’incubo. Ma davvero oggi non abbiamo più bisogno di precauzioni?
«Il Covid 19 ha segnato uno spartiacque. Dobbiamo capire che dobbiamo convivere “con” i microbi, ma non “sotto” i microbi, non dobbiamo farci dominare da loro ma dobbiamo essere noi a dominarli».

Appunto, quindi prevenzione e precauzioni sono un dato attuale.
«Certo, ma oggi possiamo parlare di precauzioni “di sistema”, non più individuali come ai tempi di mascherine e distanziamento sociale. Dobbiamo innovare e lasciarci alle spalle il Medio Evo».

Questo che significa?
«Esempio molto pratico. Non ho mai sopportato le immagini dei nostri ragazzi nelle scuole con i giubbotti addosso, di fronte alla necessità di ventilare le stanze. È vero, la ventilazione è fondamentale, ma non è sopportabile farlo aprendo le finestre. Esistono i sistemi di ventilazione meccanica, che proteggono tre volte di più rispetto alle mascherine. È quella una strada che dobbiamo percorrere, sia nelle scuole che nei posti di lavoro e in tutti gli altri luoghi collettivi. Noi allo Spallanzani stiamo preparando uno studio molto accurato su questo. Per esempio, abbiamo calcolato che per la ventilazione meccanica nelle scuole servirebbero due miliardi di euro, ma è una spesa che vale la pena sostenere. La parola d’ordine è che si viva appieno la socialità, ma con tutti gli strumenti per renderla sicura».

Socialità, dice. Ecco, un altro ambito spesso associato alla circolazione di virus è quello dei trasporti.
«Esatto. Se nelle grandi città si sta tutti ammassati in un vagone della metropolitana, lì non c’è mascherina che tenga. Se aumenti le corse, allora agevoli la protezione. E poi c’è un altro aspetto fondamentale, il rapporto con i nostri animali».

Certo, zoonosi è un’altra parola chiave di questi anni da incubo.
«Attenzione, però. Il problema non sono gli animali. Ma come li gestiamo e ci rapportiamo a loro. Esempio pratico: non c’è nessun pericolo nel cinghiale in sé. Ma se i cinghiali scorrazzano nelle vie cittadine, cercando il cibo fra i cassonetti dell’immondizia, allora c’è un problema».

Parola d’ordine, dunque, una nuova cultura della prevenzione per proteggere la socialità. È un post-it perla politica?
«Serve un vero e proprio piano Marshall in questo senso. E spero si possa insediare un team multidisciplinare ministeriale, coordinato da Palazzo Chigi, che metta insieme tutte le competenze. Per compiere le scelte giuste riguardo alla scuola, ai trasporti, ai luoghi di lavoro, agli ospedali. Un team composto da rappresentanti delle istituzioni, tecnici, scienziati. A partire dai lutti e dal dolore che abbiamo vissuto, oggi possiamo guardare avanti».

Però c’è uno scenario che, nelle scorse settimane, ha destato più di una preoccupazione: la Cina. Cosa può dirci a riguardo?
«In Cina, al contrario rispetto a noi, non hanno immunità ibrida. Hanno avuto un lockdown lunghissimo e si sono vaccinati poco, e con vaccini poco efficaci. Noi come Spallanzani siamo stati i primi ad attivare le nostre Uscar all’aeroporto di Fiumicino, e vediamo che sono varianti già note. Il che non ci preoccupa».

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