Università, quei suicidi tra gli studenti: "Sei un fallito", cosa c'è dietro
Ci sono delle grida disperate che non sempre fanno rumore, e quando lo fanno è perché vengono recepite troppo tardi. Queste grida sono i suicidi. Non se ne parla spesso, dal momento che il tema suicidio sembra essere quasi un tabù – ancora oggi, nel terzo millennio, anche e soprattutto nelle società più avanzate come la nostra – eppure è un fenomeno che esiste e che purtroppo è sempre più in crescita, specie fra i giovani.
Secondo stime recenti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a livello globale il suicidio è la seconda causa di morte (dopo gli incidenti stradali), tra gli under 30. Mentre in Italia l’Istituto nazionale di statistica (Istat) stima circa 4000 suicidi all’anno, di cui oltre 500 soltanto fra gli under 34, e fra questi 200 riguardano gli under 24. Nel contempo, tra i 1000 e i 1500 giovani vengono salvati in extremis. Una tendenza oltremodo tragica. Soprattutto se si considera che la maggior parte dei suicidi avviene tra le mura domestiche e universitarie, delle volte perfino a scuola. Un’alta percentuale di questi giovani è quindi composta da studenti, in particolare universitari.
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Ad oggi, in realtà, i dati istituzionali disponibili non sono aggiornati, tanto che l’ultimo annuario statistico dell’Istat pubblicata nel 2022 contiene i dati relativi al 2019, dove si fa riferimento alla fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Tra l’altro, proprio a causa della mancanza assoluta di dati aggiornati, nel 2019 l’Istituto Superiore di Sanità ha sottolineato l’esigenza di creare un organo che monitori questo fenomeno, annunciando la creazione dell’Osservatorio suicidi. All’annuncio, però, non è seguito alcun atto concreto. Intanto, per quanto riguarda il 2022, dal lavoro dei ricercatori svolto tra gennaio e agosto, emergono oltre 350 suicidi e circa 400 tentati suicidi. Un dato questo, con ogni probabilità al ribasso, considerando che c’è un sommerso, specie tra i tentati suicidi, che non viene coperto dai media.
CAUSE E CONCAUSE
Tutto questo, è chiaro, non può essere lo specchio di una società che funziona. Ciò che è meno chiaro, invece, è perché gli studenti universitari arrivino a compiere un gesto così drammatico. Perché. È questa la parola che ossessiona i genitori e gli amici delle giovani vite spezzate. Le cause possono essere molteplici, a partire dal bullismo e dai problemi di salute, fino ai drammi familiari, ma ce n’è una che risuona forte, per quanto diffusa e incomprensibile allo stesso tempo: la sofferenza che deriva dalla "performance universitaria". In altre parole, si tratta di un disagio che scaturisce dal rischio di fallire, dalla paura di deludere e dall’inadeguatezza nell’ambito dello studio. Non è un caso, infatti, se è proprio tra gli mura degli atenei italiani che si sviluppano livelli di depressione e ansia decisamente più alti che nel resto della popolazione giovanile.
Il mondo dell’università, che sembra essere sullo sfondo rispetto al suicidio, non è casuale quindi, e anzi assume un ruolo di primo piano. L’ultimo caso di suicidio per motivi di studio che è balzato agli onori della cronaca è quello di un 23enne, pescarese, che si è suicidato all’alba del giorno in cui, secondo quanto raccontato dalla famiglia, si sarebbe dovuto laureare. È accaduto il 7 ottobre scorso a Bologna, ma era già successo altre volte. Troppe. Soprattutto a Bologna, la città universitaria per eccellenza. Lo studente risultava iscritto alla facoltà di Giurisprudenza e si è gettato da un ponte sulle acque del fiume Reno, alla periferia della città, dopo aver invitato i genitori per la discussione della tesi. Ma il traguardo della laurea era lontano, gli mancavano diversi esami. Questa la smentita da parte dell’ateneo.
Così, il copione della finta laurea, quando in realtà si è in alto mare, diventa il copione più semplice da recitare. Ma la costruzione di una vita ideale deve poi fare i conti con la realtà, e qui, di fronte alla crudeltà del presente, inevitabilmente crolla. Ed è proprio a questo punto, quando manca anche il più piccolo bagliore di speranza, che la vita si arrende. Quando la luce in fondo al tunnel non si vede più. Il suicidio, con questi presupposti, non può essere visto come “assurdo”. Il suicidio, affinché possa essere prevenuto, deve essere compreso.
Al fine di capirlo meglio, una definizione interessante del suicidio la fornisce Maurizio Pompili, psichiatra tra i massimi esperti a livello mondiale della materia, sul portale online Psychomedia. “L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita”.
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In ambito scolastico e universitario, a dominare i pensieri è quel bisogno di riscatto e di elevazione sociale che può essere raggiunto solo con la tanto agognata laurea e che, di fronte a un qualsiasi impedimento, si traduce in malessere e disagio. Nella nostra cultura, la laurea viene spesso “consacrata” a livello sociale ed economico. Così, lo studente, soprattutto se spinto dalla famiglia, si ritrova in un vortice burrascoso da cui non vede via d’uscita. Un vortice fatto di dispiacere, senso di colpa, vergogna. In questo disequilibrio c’è il senso stesso della propria identità, di ciò che si è. Per questo si può entrare in conflitto tra le inclinazioni personali e i dettami dell’educazione familiare – molto spesso inconsapevole – che però viene percepita come limitazione della libertà personale e, di conseguenza, dei propri sogni e talenti.
Proprio la famiglia, in questo discorso, svolge un ruolo fondamentale, in quanto può farsi portavoce di un’aspettativa, che deriva dall’ambiente e dalla società circostanti, che può tradursi in modi diversi, a seconda della personalità che incontra nel figlio. Può risolversi positivamente se il figlio riesce a convertire l’ambizione e l’orgoglio dei genitori in spinte continue a migliorarsi. Ma laddove mancano gli strumenti, le opportunità e le forze necessarie, l’aspettativa e la premura eccessiva si trasformano in una pressione che può caricare la mente in modo negativo, nuocendo alla creatività e all’incoraggiamento a "fare meglio e di più".
Secondo Pompili, “il giovane è di per sé una persona fragile, è in uno stato di maturazione nel quale le emozioni non sono ancora regolate e controllate”, per cui è necessario che il microcosmo della famiglia, da cui parte la formazione dell’individuo, sia pronto a supportarlo con libertà di scelta e fiducia.“ A spiegare meglio il ruolo della famiglia ci pensa la psicanalisi. "Si pensa comunemente che il miglior modo per essere genitori abbia a che fare con l’empatia, l’ascolto, le regole. Tutte cose utili concettualmente, ma prive di valore, se non viene riconosciuta la differenza del figlio” – scrive Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano e scrittore, nel libro "Il segreto del figlio". Con questo si intende che il figlio deve far tesoro dell’eredità dei genitori, ma deve anche trovare la sua strada. E “deve sapere che potrà tornare qualora fallisse perché avrà ancora il rispetto del padre, avrà il suo amore e il suo aiuto”.
In ciò, però, la famiglia non è da sola. Anche la scuola ha un ruolo fondamentale. Si pone, infatti, al secondo posto nel delicato compito di formare gli studenti come persone. Per cui non va sottovalutata nella sua educazione verso un percorso di crescita, prima di tutto personale, dello studente.
LA PREVENZIONE
“Il suicidio è stato da sempre stigmatizzato e il ruolo dello stigma rimane uno dei principali problemi nell’esecuzione degli interventi preventivi”, scrive Pompili. “Il primo passo – la cosiddetta prevenzione primaria – consiste nel cercare di sensibilizzare l’intera popolazione sul fenomeno, fornire a tutti una sorta di “Abc” per poter riconoscere il soggetto a rischio e agire d’anticipo. Occorre, in altri termini, informare l’opinione pubblica, aiutare familiari e amici a riconoscere i segnali di allarme, sfatare i falsi miti e contrastare lo stigma. Ma per questo servono formazione e sensibilizzazione: nel nostro Paese il suicidio viene invece considerato erroneamente tabù, se ne parla ancora troppo poco”.
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Per imparare a cogliere i segnali di allarme e a prevenirne le conseguenze è quindi necessario demolire il tabù del disagio psicologico, e al tempo stesso favorire il dibattito e praticare il benessere mentale, in qualsiasi ambito, a partire dalla famiglia e dalla scuola, senza tralasciare l’ambito professionale. Sono numerosi gli psicoterapeuti che chiedono di rilanciare la figura dello psicologo e introdurla nella scuola, per esempio secondo il modello americano.
C’è da dire, però, che ad oggi qualche passo in avanti rispetto agli anni passati, è stato fatto. Per esempio, in alcuni atenei italiani, tra cui quello di Bologna, sono stati attivati degli sportelli di aiuto psicologico. Eppure, spesso queste attività non danno i risultati che dovrebbero perché non diffusi in maniera capillare e non pubblicizzati, oppure inaccessibili e non disponibili, con limitazioni di età e di condizioni. Tra questi, il Servizio di Aiuto Psicologico a Giovani Adulti di Bologna è aperto solo per giovani fino ai 28 anni.
Le istituzioni, dunque, hanno un ruolo di primissimo piano nel prevenire queste tragedie che, puntualmente, si piangono. Non a caso, il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. In Italia, un primo segnale positivo in questa direzione è stata l’approvazione da parte della Camera dei deputati, lo scorso 14 giugno, di una mozione che riconosce il suicidio “come un serio problema di salute pubblica” e che impegna il governo a realizzare una strategia nazionale con diverse tipologie di intervento.
Tutto questo, insomma, deve essere fatto con lo scopo di rendere meno individualistica la "colpa" del suicidio. Perché, come diceva il filosofo francese Albert Camus, "vi è solo un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio”.