San Casciano? Perché in quei bronzi ritrovati c'è il senso della patria
Ieri si coglieva, anche nei media, l'entusiasmo e perfino la commozione di tutti per la scoperta archeologica di San Casciano dei Bagni (le statue e i reperti in un'area sacra etrusca poi romanizzata). Alcuni entusiasti sono poi quelli che hanno da ridire sul ritorno della parola "patria". Eppure nulla come quel tesoro millenario spiega il significato di questa parola che per decenni è stata bandita dal discorso pubblico. Patria è la terra dei padri, la terra dove sono sepolte le generazioni da cui discendiamo, la terra che è impastata con le loro ossa e con i segni della loro vita, con le mura, le case, i templi, le civiltà che costruirono. Confondere questa idea di "patria" con il fascismo o il nazionalismo è come confondere il polmone con la polmonite.
Non a caso la ritroviamo nelle bellissime pagine di una personalità che è un simbolo dell'antifascismo, Piero Calamandrei, un padre costituente che fu tra i fondatori del Partito d'Azione. In un suo bel libro, "Inventario della casa di campagna" (Edizioni di storia e letteratura), Calamandrei annota il ricordo di un episodio che potrebbe sembrare minimo, ma che fu per lui significativo: una passeggiata primaverile «alle rovine di Cosa etrusca, in cima al promontorio che fronteggia l'Argentario». Come per l'area di San Casciano dei Bagni, si tratta di un antico insediamento etrusco, "Cusi" o "Cusia", che venne poi romanizzato attorno al 270 a.C. Si trova sulla collina rocciosa dell'attuale Ansedonia (nel Comune di Orbetello) e domina il fantastico litorale che va dall'Argentario alla Tuscia laziale. Un luogo incantevole in cui, nei decenni scorsi, sono stati fatti importanti scavi archeologici (soprattutto da americani e spagnoli). Però quando Calamandrei salì a visitare quell'antico insediamento tutto era ancora ricoperto dalla boscaglia, abbandonato da millenni. Il suo racconto è emozionante.
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SOTTOVOCE
Raggiunto «il cocuzzolo estremo del monte», scrive «arriviamo alla grande porta che doveva essere l'entrata principale della città: sono ancora in piedi i due stipiti costruiti di grandi blocchi squadrati... Entriamo nella città e ci troviamo in una strana boscaglia... affiorano tracce di muretti coperti di edera e di vitalbe... si direbbe a prima vista che molte generazioni di agricoltori abbiano qui lavorato in pace per rincalzare le piante ad una ad una... questi muretti sono tronconi di pareti crollate, cantonate di strade sommerse dalla vegetazione: le piante sono scoppiate a caso in mezzo alle antiche stanze... Ora su questa città riconquistata dalla boscaglia, anche il vento marino, al quale l'estrema vetta del monte fa da schermo, trattiene il respiro».
Calamandrei medita su quello che sta vedendo: «Viene fatto di parlare sottovoce, come nei cimiteri... Bellissimo è questo mare che si distende, a chi lo guardi da queste diroccate torri dell'acropoli... Quassù erano le altane dalle quali occhi mortali come i nostri spiarono gli arrivi delle vele... tra queste pareti al calar della notte creature effimere al par di noi cercarono di soffocare nel sonno quest' angoscia di addio, di cui in ogni minuto è fatta, ora come allora, la nostra vita». A un certo punto nella mente del colto e sensibile visitatore novecentesco deve essere sorta la domanda delle domande: chi erano gli esseri umani, le comunità, che vissero qui più di duemila anni fa? La risposta lascia sgomenti: erano coloro dalla cui carne e dai cui sentimenti siamo nati noi.
Erano i nostri padri. Immerso in questi pensieri Calamandrei scrive una pagina che dovrebbe stare nelle antologie scolastiche: «Tutte le fantasticherie che si possono sognare da una finestra che dà sul mare furono sognate quassù, più di duemil'anni fa, da uomini ai quali noi somigliamo anche nel volto...». Essi tornarono poi in polvere alla terra, come accadrà a noi: «Forse è proprio questa consapevolezza della sorte comune» scrive Calamandrei «che ci rende così cara e così familiare questa terra: il saper che in questa vegetazione» e in queste «macerie si sono mescolate e fuse le vicende umane che oggi per un istante si incarnano in noi».
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Ecco, «questo» annota il nostro «ci fa sentire per questa terra, anche per i suoi sassi e per i suoi arbusti, una struggente tenerezza, come quella che si prova per la casa paterna, da cui siamo usciti e nella quale vorremmo rientrare per morirvi in pace». Rocce e alberi sono fusi con «il segno lasciato dai viventi; uno stesso senso di pietà, come se si trattasse di parentela, abbraccia le cose e le creature». Infine l'intuizione fulminante: «Nello scendere per lo stesso sentiero mi sorprendo mentre mormoro tra me una parola nuova, che mi pare, da quanto è misteriosa e fresca, inventata ora: "patria"».
PIER DELLA FRANCESCA
Ecco cos' è la patria. Con la stessa pietà, nel suo famoso discorso del 1944 all'Università di Firenze, Calamandrei ricorda di aver vissuto, pochi mesi prima, il drammatico passaggio del fronte in Toscana pensando con apprensione alle persone care e a ogni amato angolo d'Italia: «Questi paesi sono carne della nostra carne... C'è tra Arezzo e Sansepolcro un piccolo paese che si chiama Monterchi, vicino al quale, in un camposanto in mezzo alla campagna, regna in solitudine il più bel quadro di Pier della Francesca, la "Madonna del Parto", la celebrazione più solenne e più austera della maternità: non è passato giorno che io non abbia pensato, come pensavo ai miei parenti ed amici in pericolo, a quel quadro abbandonato ai tedeschi. Che ne sarà successo? Si sarà salvato?». Questi ricordi di Calamandrei vanno sotto la voce: amor di patria. Non dovremmo condividere tutti questo amore?