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Corriere della Sera condannato: per i giudici inglesi non fa giornalismo

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Renato Farina
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Il giudice inglese ha impartito in 8 pagine secche e ironiche, com' è nello stile della giustizia di Sua Maestà, una lezione di civiltà al Corriere della Sera e ai suoi giornalisti. In sintesi: non si dà notizia di un'indagine su Tizio e Caio, facendone nome e cognome, senza interpellare l'interessato e comunque anticipando in edicola o sul web l'avviso di garanzia, modo sicuro per rovinare la reputazione di una persona. Direte: che c'entra l'Alta Corte di Sua Maestà? Pazienza e vedremo come e perché "Rizzoli Corriere della Sera Group, Fiorenza Sarzanini, Mario Gerevini, Fabrizio Massaro" debbano intanto pagare le spese legali, e saranno chiamati nel prossimo novembre a difendersi in sede civile dall'accusa di diffamazione. Nel linguaggio cinematografico e televisivo quel che abbiamo scoperto sui guai del Corriere della Sera a Londra è uno spin-off, una filiazione della trama principale. Nel nostro caso trattasi di un ramo fiorito per conto suo dal tronco del grande processo del millennio in corso in Vaticano sulle presunte mascalzonate connesse alla compravendita del Palazzo sito a Chelsea, London, numero 60 di Sloane Avenue. Per intenderci, stiamo parlando del processo chiamato impropriamente "Becciu", dal nome dell'imputato più famoso tra i dieci, laici ed ecclesiastici. Impropriamente due volte, perché il cardinale sardo con quel Palazzo non c'entra nulla. È vero che è stato privato da Francesco il 24 settembre del 2020 del diritto ad entrare nel prossimo conclave con una "crocifissione cautelare" ancora in corso. A spulciare però lettere e relazioni rintracciabili tra le 30mila pagine depositate dal Promotore di Giustizia (la Procura vaticana), si evince che il porporato di Pattada, al tempo dei maneggi su 60-Sloane (primavera 2019 e seguenti), non era in condizione di decidere alcunché sul "Palazzo dello scandalo". Ne sapremo di più - si spera - da una fonte giudiziaria indipendente.

 

 


Infatti, come ha raccontato in esclusiva Libero lo scorso l'11 agosto, tra poco partirà un processo parallelo sul Tamigi. Ma il sottoscritto che ha firmato l'articolo dev' essere stato anch' egli intossicato dal fumus persecutionis prodotto a tonnellate dai quotidiani del triangolo magico del potere (Torino, Milano, Roma). Così ho attribuito l'imputazione di corruzione a Raffaele Mincione, finanziere che aveva indicato per primo l'investimento nel mattone crimine per cui neppure il professor Alessandro Diddi, pm vaticano, si è mai sognato di chiedere il rinvio a giudizio. Errore di cui mi scuso, tanto più che Mincione, sicuro del suo retto agire, è colui che ha chiamato la Segreteria di Stato della Santa Sede davanti alla "Alta Corte d'Appello civile d'Inghilterra e del Galles" dove è stata condannata a pagare 300mila sterline, aprendo la strada a novità che promettono di essere sorprendenti.
 

 

 

 

OSSO SEPOLTO La premessa si è fatta lunga, ma necessaria per capire come ci è finito tra le mani qualcosa che se ne stava nascosto come una talpa nel sottosuolo delle notizie che siccome danneggiano la Voce del padrone sono silenziate. Il fatto è che gli avvocati di Mincione, il giorno di Ferragosto, mi hanno via pec preannunciato querela se non mi fossi corretto.
Accertato il mio errore, cui ho appena rimediato, ho cercato di capire se quelli promessi dai legali di Mincione fossero, come spesso capita, tuoni senza fulmini. Ho consultato "Bailii", dove le sentenze inglesi (non le carte segretate!) sono attingibili in totale trasparenza. Ed ecco l'osso sepolto . La sentenza è stata depositata e resa pubblica dal giudice, onorevole Master Davison, lo scorso 12 agosto, al termine del primo round tra le parti, cioè Mincione contro Corriere & C. L'8 novembre del 2019 Fiorenza Sarzanini aveva pubblicato sul Corriere della Sera, cartaceo e web, un presunto scoop: «Roma, la truffa del palazzo venduto al Vaticano con i soldi di Enasarco». In base a «fonti confidenziali» l'attuale vicedirettrice del quotidiano affermava (e afferma ancora: il testo è ancora su Internet) che Mincione è indagato per «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa». Segue altro articolo sul web, ad opera di Mario Gerevini e Fabrizio Massaro, in cui si accusa Mincione di essersi «appropriato indebitamente di parte del denaro (200 milioni di dollari) investiti dal Vaticano» sempre in relazione a 60-Sloane. Il giudice manifesta addirittura stupefazione per il costume italiano di pubblicare sui giornali avvisi di garanzia prima che dell'essere indagato sia informato il diretto interessato. Tutto questo mr. Davison se l'è trovato sotto il naso, tranquillamente rivendicato come prassi del rito giornalistico italiano, e perciò impunito e accettato. Questa tesi gli è stata proposta senza alcun rossore nel parere pro-veritate di un avvocato del nostro Paese, nell'udienza del 27 luglio scorso dai legali inglesi dei "defendants". In questa fase del rito civile inglese non siamo ancora al giudizio di merito, se cioè ci sia stata o no diffamazione. Intanto l'Alta Corte della Giustizia di Sua Maestà, sezione Media e Comunicazioni, ha sentenziato che il cittadino italo-britannico Raffaele Mincione, residente a Londra, ha pieno diritto a farsi valere in Inghilterra, ha tacciato di «genericità» le argomentazioni dei «convenuti» (defendants) e toccherà ad essi rifondere le spese legali a Mincione, che saranno quantificate a settembre ma che - ci siamo informati - supereranno le 30mila sterline.
 

PRASSI INACCETTABILE Davison ridicolizza le tesi corrieriste. Trascrive con un moto di trasalimento le parole dell'avvocato Adam Wolanski: «(Le circostanze da tenere in considerazione da parte del giudice, ndr) "devono, ovviamente, includere gli standard legali e giornalistici applicabili in Italia nel momento in cui gli articoli sono stati preparati e pubblicati". Ha affermato che se la tesi dell'attore (Mincione) era che il giornalismo dei convenuti (Corriere & C) in relazione agli articoli doveva essere giudicato solo con riferimento agli standard legali e giornalistici applicabili in Inghilterra, ciò era "assurdo". Era assurdo perché "ignorava completamente le circostanze più importanti del caso, ossia che gli articoli erano stati scritti in Italia, e in italiano, da giornalisti italiani, per un pubblico italiano"». Ehi, risponde il giudice, assurda è la prassi per cui un giornalista italiano può in base ai costumi giornalistici italiani saltare la legge italiana che pure vieta di rivelare il segreto istruttorio. In Italia facciano quel che gli pare, ma se un articolo sul web è acquistabile a Londra (e lo è) ed offende un inglese, cari miei, usiamo la nostra idea di che cosa valga la reputazione di una persona e come essa sia intangibile. Esiste un giudice a Londra, oltre che a Berlino. 

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