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Vimercate, italo-marocchina 23enne finisce in carcere a Rabat: aveva fatto ironia sul Corano

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Claudia Osmetti
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Un'agenzia di stampa e poco più, poi un sostanziale silenzio. «Macché», sbotta Maryan Ismail, italiana di origini somale, musulmana e fuoriuscita dal Pd: «Le femministe di casa nostra non han mosso un dito per Saman, non possiamo aspettarci sollevazioni di piazza per il caso di Fatima». Eppure Fatima (il nome è di fantasia) avrebbe ben diritto a essere difesa, e non solo a parole, in una società che si dice libera e civile. Ha 23 anni, Fatima. È nata a Vimercate, in provincia di Monza e Brianza, nel 1998 e in tasca ha due passaporti. Il primo, il nostro; il secondo, quello marocchino. Perché la sua famiglia viene da lì, ha attraversato il Mediterraneo per stanziarsi in un paesotto di 26mila abitanti nella pianura lombarda. Da qualche anno frequenta pure l'università, questa volta a Marsiglia, in Francia, facoltà di Giurisprudenza. Pochi giorni fa, però, finisce in carcere in Marocco, per un commento lanciato sui social nel 2019 in cui si lascia scappare una "parodia" dell'Islam.

 

 

A MARRAKECH
Il 20 giugno scorso scende dall'aereo che la porta dalla Provenza a Marrakech, anziché dai famigliari viene accolta dalla polizia di frontiera. Fatima vuole solo raggiungere i suoi per celebrare la Festa del Sacrifico, una ricorrenza molto importante per il mondo islamico. L'incubo inizia in dogana. Le chiedono i documenti, lei mostra solo quelli marocchini. E allora la fermano, ufficialmente, con l'accusa di aver «offeso pubblicamente l'Islam». Per capire come sia possibile deve andare indietro nel tempo di almeno tre anni: ne aveva una ventina quando, su Facebook, magari in un momento di scherzo, vai a sapere, ha ribattezzato un passaggio del Corano, il "Kautar", quello che impone il divieto di bere alcolici per rispettare i dettami religiosi, come "il versetto del whisky". Apriticielo. Dopo una settimana chiusa nella casa di famiglia in attesa dell'udienza di primo grado arriva la sentenza, che è una mazzata: tre anni e mezzo di prigione e una multa di 50mila dirham, che corrispondono a circa 4.800 euro.

 

 

Pensava di andare in vacanza, Fatima, è finita al gabbio. La notizia la dà il ministero della Giustizia marocchino, ma esce solo in lingua araba. Il Consolato italiano onorario di Marrakech si fa in quattro: parla con i parenti, cerca di raccogliere informazioni. Non è mica facile, di comunicazioni bollate ce ne sono poche e da noi arrivano poche righe stringate. «Stiamo seguendo l'episodio che è particolarmente delicato», taglia corto l'ambasciatore italiano a Rabat, Armando Barucco. E si attacca al telefono. Ma come è possibile? Si tratta di una cittadina italiana, di un fatto avvenuto in Italia, peraltro tre anni fa e, comunque, non considerato reato dalla legge italiana. «È una vicenda che ha dell'incredibile», commenta Ismail, da sempre in prima linea in casi come questo. Il Marocco, tra l'altro, non è nemmeno tra i Paesi più intransigenti: è uno degli ultimi ad aver aperto a Israele con gli accordi di Abramo (vorrà pur dir qualcosa) ed è dotato di un codice di famiglia. Piccolezze che noi diamo per scontate, ma che fanno la differenza.

UN DOGMA
«Premesso che il divieto di assumere alcolici è un dogma religioso nell'Islam», specifica Ismail, «va anche detto che una forte osservanza in questo senso non c'è mai stata. Di certo non in Marocco». A Casablanca, a Fez, a Tangeri si trovano birra e vino anche nei ristoranti: segno che, comunque la si veda, una certa apertura c'è. «A meno che non ci sia dell'altro, questa sentenza è esagerata e inaccettabile. Deve prevalere il buon senso e, soprattutto, in ballo c'è un principio molto più grande, quello delle libertà individuali che comprendono anche il diritto di espressione». Eppure, un po' come per l'egiziano Patrick Zaki, per cui (giustamente) si è rivoltato mezzo mondo, per Fatima son arrivate le manette: «Il fatto che sia una ragazza sicuramente ha il suo peso in un codice morale che impone alle donne un ruolo molto più dimesso e rispettoso delle regole. Certo non mi aspetto», chiosa Ismail, «che le femministe italiane organizzino cortei e proteste per lei. Non l'han fatto nemmeno per Saman, con tutto quel che le è capitato. O si rendono conto che c'è un'aggressione costante e sistematica sul corpo femminile o continueremo da sole questa battaglia per le libertà femminili delle donne musulmane». Amen. O meglio, Inshallah. 

 

 

 

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