25 aprile, la fine della Guerra civile si ricorda, non si "festeggia"
Non è difficile leggere: "caduto contro le orde nazifasciste", "caduto combattendo l'oppressione nazifascista" sulle targhe commemorative o ascoltarlo in ricorrenze pubbliche.
Nazifascismo: "Denominazione con cui è stata polemicamente indicata l’unione sul piano ideologico e politico del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco [...]" lo descrive l'Enciclopedia Treccani. E il suo carattere "polemico" è palesato dal frequente ricorso in manifestazioni o durante speech che hanno molto di politico e ben poco di accademico.
Nazional-socialisti e non nazisti Ma chi erano i nazifascisti? Qualunque storico preferirebbe affidarsi alle definizioni ufficiali: Regno d'Italia e Terzo Reich (guerra 1940-1943); Repubblica Sociale Italiana o Fascismo repubblicano (guerra civile 1943-1945) alleato del Terzo Reich.
Sì, perché "nazi" in realtà era allora usato dalla sola propaganda alleata, mentre nei documenti si indicavano i "tedeschi" o i "nazional-socialisti". Il partito di Hitler, d'altronde, era il NSDAP (Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi) i cui membri si chiamavano fra loro "nazional-socialisti", mentre i militari erano inquadrati nella Wehrmacht (Forze Armate) a sua volta divisa in Heer (Forze di terra), Kriegsmarine (Marina da guerra), Luftwaffe (Arma aerea). Altri erano arruolati nei reparti paramilitari SS e Waffen SS.
Nazifascismo o, peggio ancora, "orda nazifascista" manca dunque di valore storico. L' "orda" in origine era il nome della suddivisione amministrativa dell'impero mongolo e, solo inseguito, ha assunto l'accezione negativa di "accozzaglia" e "soldataglia". Nel suddetto caso sarebbe quindi come dire: "provincia o contea nazifascista".
Liberazione, ma... "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Amara constatazione e, purtroppo, vera quella di uno dei più spietati ministri dell'entourage di Hitler, quel Josef Goebbels che, da capo della propaganda, costruì ed alimentò l'odio razziale verso i "nemici" del Reich. La democrazia avrebbe dovuto insegnarci che il valore di una verità, pur di una verità ingombrante, è sempre da preferirsi alle più facili scorciatoie della menzogna. Il tentativo di analizzare la storia del fascismo e della guerra civile senza strumentalizzazioni e speculazioni ha invece sempre incontrato, in Italia, una certa opposizione politica ed accademica quasi come se l'approccio scientifico alla Storia suggerito da Marc Bloch fosse una eresia...
Emblematico, a questo proposito, il caso della Liberazione. Cosa festeggiamo precisamente? Al Trattato di Pace ci siamo seduti dalla parte degli sconfitti né gli Alleati hanno tenuto conto dell'impegno della Resistenza e del Corpo Italiano di Liberazione, imponendoci invece durissime clausole nonché la perdita di territori italiani a vantaggio di Belgrado e di Parigi. Quanto alla guerra civile c'è, anche qui, poco da festeggiare: quel conflitto intestino divise intere famiglie, portando i padri a sparare contro i figli ed i figli a denunciare i genitori e i fratelli. Se qualcuno si fosse preso la briga di far leggere ai nostri studenti Fenoglio (ex comandante partigiano ed autore di splendidi romanzi sulla Resistenza) i ragazzi avrebbero certamente compreso e condiviso il dolore del giovane Kim, personaggio terrorizzato all'idea di poter sparare al fratello, ufficiale della Guardia Repubblicana.
Celebrare la fine di una dittatura e dell'occupazione nemica è dunque doveroso, ma tenendo conto di ciò che davvero rappresentò quella pagina, drammatica, del nostro passato: un bagno di sangue che lacerò il tessuto sociale ed umano di un Paese già distrutto dalle bombe e dalle rappresaglie.
Celebrare, quindi, non festeggiare: nel primo caso vuol dire preservare, con razionalità e rispetto, la memoria di chi è caduto per l'indipendenza e per la libertà della Patria; nel secondo alimentare lontani echi di odio e di morte e contribuire a tramandare un'immagine della lotta partigiana che, 7 decenni di cattiva informazione, hanno trasformato da fenomeno umano e storico ad una sorta di epopea della frontiera.